Obama, il razzismo e l’Italia


Non è la prima volta che gli italiani s’interrogano su propri difetti e chiusure, pur credendo d’essere
un popolo per natura buono, aperto al forestiero e innocente. L’innocente spesso è attratto dal male specie
dai vizi contrari alle proprie virtù - perché certi mali li ha magari patiti, ma non vedendoli in sé non li conosce.

È quel che succede oggi, con il moltiplicarsi di xenofobie e violenze. Dopo la
caduta di Prodi i vizi si sono dilatati, e non solo a causa di dispositivi come le impronte digitali ai
bambini rom o il reato di clandestinità, ma perché in concomitanza con quella caduta son svaniti
d’un tratto un gran numero di tabù e inibizioni.
La volontà di creare classi separate per i bambini immigrati che non padroneggiano l’italiano,
manifestata dalla Lega, nasce in questo clima, già torbido. Sul New York Times del 12 ottobre,
Rachel Donadio osserva che la xenofobia è particolarmente forte in Italia, «trasformatasi solo di
recente in Paese d’immigrazione». Ragionare sull’integrazione è difficile quando il
multiculturalismo cessa di essere una possibilità diventando un fatto, e dai cieli dell’ideologia tocca
atterrare sul pavimento del reale. Il razzismo è bestia strana: a volte esiste prescindendo dalle razze
(l’antisemitismo senza ebrei in Est Europa o Asia), altre volte è diffuso pur essendo condiviso da
pochi (il razzismo senza razzisti in America).
Tanto più importante è quello che accadrà negli Stati Uniti, il 4 novembre.
Se Barack Obama dovesse vincere, molte cose cambierebbero nei Paesi europei tentati dalla
chiusura allo straniero, non solo nella politica ma nel costume e nella conversazione cittadina. Per
forza il ragionamento sulla mescolanza di culture incorporerebbe le scosse d’Oltreoceano.
Come nella finanza mondiale, anche queste scosse hanno le caratteristiche della tempesta perfetta,
del perfect storm raccontato dallo scrittore Sebastian Junger. Così son chiamate le tempeste i cui
effetti sono massimizzati dal concorrere imprevisto di circostanze diverse, che mutano non solo
l’agire ma il pensare. Analoga tempesta potrebbe scompaginare le nostre società, qualora Obama
vincesse.
Sono decenni che intellettuali e politici s’ingegnano a denunciare il politicamente corretto, che negli
Anni 70 impedì di analizzare seriamente le differenze fra culture o generi, e addirittura negò tali
differenze. Questa idealizzazione produsse un’ideologia contraria non meno astratta, fautrice del
politicamente scorretto, che senza speciali patemi condona la xenofobia. Anche nel rapporto col
diverso, come nella finanza, i paradigmi dominanti sono inciampati sulla realtà, fallendo.
Naturalmente il razzismo - come il fascismo - non è lo stesso di ieri. Mutano le parole, gli atti. Ma
se un politico consapevole come Fini comincia ad allarmarsi, c’è da stare attenti. Il fondatore di An
conosce bene il lato buio dell’innocenza italiana. Se dice, come giovedì alla sinagoga romana, che
«razzismo e xenofobia sono una sorta di mostro che può risorgere in forme e modalità diverse»; se
aggiunge che «in Italia ci sono troppe, troppe dimostrazioni di ignoranza, paura, avversione», e che
questi fenomeni, «se non affrontati nei modi dovuti, possono diventare razzismo», vuol dire che
qualcosa di marcio c’è.

Meglio chiamarlo xenofobia, perché il razzismo si concentra sulla natura genetica del diverso. Ma
all’origine è sempre la diversità che incollerisce, e nascondersi dietro distinguo linguistici non aiuta.
Perfino la religione può divenire un diversivo: il giornalista Nicholas Kristof sostiene che le voci su
Obama musulmano sono in realtà surrogati della calunnia razziale (New York Times, 21 settembre).
Non sarà razzismo quello che abbiamo davanti, ma di certo è il sentimento che l’antropologo
Claude Lévi-Strauss descrisse nel ’52 e nel ’71 (Razza e Storia. Razza e cultura, Einaudi 2002): è
paura dell’ibrido culturale. Questo sentimento, unito a ingredienti come l’ignoranza citata da Fini e
alla diseguaglianza mondiale che accentua le migrazioni di popoli, sfocia in razzismi moderni
spesso sottovalutati anche dai liberali.

Proprio perché sta trasformandosi, l’Italia deve fabbricarsi con urgenza un pensiero e una politica
lungimiranti sulla società multiculturale.
Isolare dalle classi i bambini stranieri, schedare i rom:
sono mosse emotive non solo pericolose ma sterili, come la storia di molti Paesi europei insegna.
Lo ricorda il linguista Tullio De Mauro: «Più le classi sono eterogenee, migliori sono i risultati degli
alunni. Dei più bravi e dei peggiori» (Corriere della Sera, 17 ottobre). Chi lascia passare simili idee
accetta che l’integrazione avvenga in tali modi: sbrigativi, brutali, e infruttuosi. Lévi-Strauss
descrive le trappole di un’integrazione che accorpa il diverso odiando la varietà: «è in pericolo la
civiltà», la sua capacità di preservarsi mutando. Il progresso avviene solo «quando si creano
coalizioni di culture»: solo in tal caso, scrive, non si ha storia stazionaria, solitaria, ma storia
cumulativa come nel Rinascimento o nel Neolitico. L’avversione al meticciato espressa da Marcello
Pera, il 21 agosto 2005, fu un contributo non minore alla tempesta odierna: sinonimo di bastardo, il
meticcio era sospettato di aprire le porte «all’immigrazione incontrollata», al declino demografico,
«e così via, di allarme in allarme».
Il discorso sulla razza che Obama ha tenuto a Filadelfia il 18 marzo è decisivo anche per l’Italia che
sta divenendo melting pot, crogiolo dove varie culture formano la nazione. L’editore Rizzoli ha
avuto l’ottima idea di pubblicarlo, con una prefazione di Giancarlo Bosetti (Sulla razza, 2008).
Conviene leggerlo, perché aiuterà a capire meglio presente e futuro. Ci si renderà conto che molto
resta da fare, per eliminare non solo i pregiudizi dei bianchi ma anche dei neri. Ambedue sono
chiamati a una rivoluzione mentale, da Obama. I bianchi devono scoprire che esiste ormai un
razzismo senza razzisti, come spiegato da importanti sociologi (Eduardo Bonilla-Silva, Racism
without Racists, 2003; Michael Brown, Whitewashing Race, 2005). Ma anche le minoranze nere,
accecate da pregiudizi, devono trasformarsi.
Il fatto è che dal dopoguerra esiste una sorta di consenso progressista, a proposito delle minoranze,
modellato sulla storia israeliana e sull’idea che ogni minoranza oppressa o discriminata,
cominciando dai neri americani, ha da compiere un Esodo dalla schiavitù. L’Esodo è il nuovo mito
planetario, e in genere si combina con il rigetto dell’assimilazione avvenuto nell’ebraismo europeo.
Ambedue - mito e rigetto - vanno oggi rimeditati: la frammentazione identitaria non può divenire il
modello d’ogni minoranza, pena l’impossibilità di quella coalizione delle culture cui accenna Lévi-
Strauss quando invoca una storia cumulativa, non statica. L’assimilazione va rinominata, ma da essa
occorrerà ripartire.
È come se Obama avesse appreso da Lévi-Strauss le insidie delle solitudini storiche che
fossilizzano. Quando dice che l’Unione creata dai fondatori americani non è compiuta ma da
compiere, quando ricorda al reverendo Wright della Chiesa Nera che «la società non ha nulla di
statico» ma può cambiare, migliorare, smaschera gli stereotipi bianchi e anche la fuga dei neri
nell’identità chiusa e nella disperazione. L’audacia della speranza è possibile perché le società vive
non sono immobili. Vale anche per l’Italia.
L’uomo xenofobo ha le passioni tristi descritte da Spinoza: risentimento, paura che svuota il futuro,
incapacità di sperare e perfino desiderare. Acchiappa salvagenti con gesti di naufrago, pensando che
la vita sia un gioco a somma zero, in cui guadagniamo se l’altro perde.
Una vittoria di Obama
farebbe bene non solo all’America, e non perché sia un candidato nero o di sinistra. Perché
confuterebbe la storia stazionaria in cui ogni civiltà stagna e perisce.

Barbara Spinelli        La Stampa 19 ottobre 2008