Il nuovo imperatore i suoi vassalli e il neofeudalesimo
Sostituite il potere delle armi con quello dei soldi (e dei voti) e
avrete, all'incirca, Berlusconi. Un imperatore neofeudale in pectore
L'Italia del Ventunesimo secolo sta "precipitando" nel feudalesimo?
In una sorta di neofeudalesimo ovviamente molto diverso dai suoi antecedenti
medioevali ma ad esso in qualche modo somigliante? La suggestione - lanciata su
queste colonne da Rino Formica, a proposito del ruolo crescente della Lega - può
apparire stravagante. Eppure, non va scartata a priori. Quando Veronica Lario
parlò, nella sua ormai celebre dichiarazione, di «divertimento dell'imperatore»,
evocò, forse inconsapevolmente, un concetto assai preciso e forse non casuale.
Imperatori non si nasce, si diventa: ecco la differenza rispetto
ai re o ai principi, che sono tali per diritto di nascita e sangue. Imperatori,
si può diventarlo anche se si è un parvenu, se si ha dalla propria parte
il "consenso" dell'esercito - vedi Roma e il suo discendente quasi diretto, il
Sacro Romano Impero, vedi, per citare un esempio moderno, Napoleone Bonaparte.
Sostituite il potere delle armi con quello dei soldi (e dei voti) e
avrete, all'incirca, Silvio Berlusconi. Un imperatore neofeudale in
pectore (del resto in tempi non sospetti non si dichiarò l'«unto del Signore?»),
che governa il suo territorio attraverso vassalli e valvassori (un
subappalto territoriale di cui la Lega rappresenta oggi l'esempio più forte), ma
che ha al contempo un rapporto "diretto", carismatico, sacrale, con il suo
popolo. Un imperatore feudal-populista, che, come i suoi predecessori
medioevali, dipende in toto dai suoi "vassi", quelli che presidiano i
territori (geografici, televisivi, pubblicitari e così via), ma che è la sola
fonte "legittima" del potere, il proprietario dei titoli. Ne consegue quell'intreccio
di interdipendenza, ordine e caos che caratterizzò, in fondo, i "secoli bui"
seguiti alla caduta dell'Impero romano, quando mancava ogni sicurezza
(scorazzavano barbari, briganti e pirati), quando non restava che rifugiarsi
(più o meno) in un castello, quando, per sopravvivere, non si poteva che
affidarsi a chi deteneva la forza, appunto, delle armi.
Ma ci sono altre riflessioni, un po' più generali, che si possono proporre.
La prima, appunto, è la frammentazione dei territori, ovvero la crisi degli Stati nazionali moderni. Un processo indotto prima dalla globalizzazione, e reso ancor più complesso dalla crisi della globalizzazione stessa: quel che è colpito al cuore, in verità, specie in Europa (ma non solo) è l'idea di unità politica, di forza della politica, che lo Stato moderno ha rappresentato per un quasi due secoli. Pullulano le Nazioni, è vero, ma si moltiplicano le spinte centrifughe, le identità etniche, le pulsioni separatiste, spesso intrecciate con il caos sempre più disordinante del mercato globale, che oggi riversa i suoi guai (come appena ieri riversava i suoi fasti) sulla globalità dei territori. Se si prova a viaggiare attraverso l'Europa, si ha la sensazione di un continuum largamente unificato, per un verso, anche dal punto di vista antropologico, ma straordinariamente differenziato per l'altro verso. Immagino che ai (pochi) viaggiatori dell'epoca apparisse così, all'incirca, l'Europa di Carlo Magno (immagine): un luogo dai confini interni molto confusi, e mai del tutto stabili, un'unità molto in alto, lontanissima, astratta. Sacra, giust'appunto (la sacralità che ha oggi assunto il mercato, una divinità impalpabile, come capita a tutte le religioni monoteiste).
La
seconda riflessione è che tutto questo disordine al capitalismo globalizzato sta
a pennello: ci nuota come un pesce nell'acqua. Se potesse fare a meno,
del tutto, della politica e degli Stati, ci sguazzerebbe ancora meglio. Ma,
poiché questo obiettivo di dissolvenza non è realistico, si limita a fare del
suo meglio per indebolire come può la forza degli istituti e delle istituzioni
politiche. Un esempio? I partiti, come tali, sono sostanzialmente scomparsi, e
con essi l'idea stessa di rappresentanza - quello che resta dei partiti, a sua
volta, si è modellato su un ordine di tipo feudale. Partiti personali, correnti
personali, sistemi diffusi di vassallaggi e cooptazioni - anche qui, come nel
Medioevo, il vassus è sempre alle dipendenze di un Signore, ma, a sua volta, può
disporre di suoi propri vassi. La catena infinita di un intreccio inestricabile
di interdipendenze.
Infine, ultima riflessione, il neofeudalesimo di oggi è incentrato, come
quello di ieri, su due dimensioni antropologiche decisive: la paura e il bisogno
di sicurezza. Il Nemico è sempre alle porte, anche quando non lo vedi e
magari non lo riconosci: ecco una delle chiavi di volta della crisi di civiltà
contemporanea.
Quando, dopo il famoso risveglio dell'anno Mille, nacquero i Comuni, cioè la
borghesia della prima rivoluzione borghese e commerciale, cominciò a nascere ciò
che chiamammo "modernità" e culminò, politicamente, nella Rivoluzione francese.
Ne siamo usciti, dalla modernità, dopo le tragedie del Novecento. Per
andare dove? Per tornare a quando?
Rina Gagliardi il Riformista 27.6.09