«La dittatura di Camillo Ruini e la crisi del cattolicesimo»
Lo storico Alberto Melloni, membro della Fondazione
per le scienze religiose, ripercorre in questa intervista il ruolo dell'ex
«cardinale presidente», capo dei vescovi italiani per sedici anni. «La sua
smania di accentramento del potere è la principale causa della progressiva
emarginazione della chiesa dal resto della società»
Il cardinal Camillo Ruini? «Una di quelle mezzale che non
vedono mai la porta, a cui il pubblico urla 'passa!', ma che tengono
ostinatamente la palla tra i piedi». Per stigmatizzare i sedici anni di governo
ruiniano della chiesa italiana, Alberto Melloni sceglie una metafora calcistica.
Storico all'Università di Modena e membro della Fondazione per le scienze
religiose «Giovanni XXIII» di Bologna, Melloni è uno dei firmatari
dell'appello-supplica ai vescovi che nel febbraio scorso ruppe la cortina di
unanimismo attorno ai diktat della Cei in materia di convivenze. E, pur
precisando di considerare l'ex presidente della Cei «la grande occasione mancata
della chiesa italiana», non esita ad attribuire alla sua smania di accentramento
la principale responsabilità di una crisi del mondo cattolico che oggi vive in
uno stato di «tristezza e di depressione», una progressiva emarginazione dal
resto della società. Tornando sui temi di uno dei suoi libri recenti (Chiesa
madre, chiesa matrigna, Einaudi 2004), Melloni spiega i rischi di un dibattito a
senso unico che rischia di trasformare la cultura cattolica nel «grande alibi di
un conservatorismo in difetto di idee».
Fino all'appello che lei ha firmato
con Giuseppe Alberigo, il cattolicesimo laico non aveva dato grandissimi segni
di vita. Le interviste di alti prelati, in compenso, si sprecavano. E' il
protagonismo clericale il tratto distintivo degli anni di Ruini?
Più che il protagonismo clericale, mi sembra che il
vero problema sia stato il protagonismo del cardinale-presidente, che ha
interpretato il proprio ruolo come una voce isolata e singolare chiamata a
interloquire con tutto e con tutti, lasciando indietro la cura pastorale del suo
gregge, ma anche quella del suo episcopato. E la riprova è che sui vari siti ed
organi integralisti, appena si aveva sentore di una voce anche solo diversa
dalla sua, subito scattava il giochetto polemico della personalizzazione: "vuole
fare l'anti-Ruini", si diceva. Il risultato è che proprio questo protagonismo ha
portato il cattolicesimo italiano in una zona di marginalità, tanto che le
parole con cui il cardinale ha chiuso il suo mandato, più che come il bilancio
di un governo, suonavano come un programma elettorale. Concludere sedici anni di
gestione della chiesa italiana con il grido «cattolici, svegliatevi!» è
un'implicita ammissione che lo scopo non è stato raggiunto.
Non c'è dubbio però che il ruolo
dell'associazionismo e dei movimenti cattolici, in questi anni, si sia
appannato...
Ruini era l'uomo a cui Wojtyla faceva da contrappeso, e
in questa veste ha sfruttato la scelta di Giovanni Paolo II a favore dei
movimenti, dove sembrava che "Comunione e Liberazione" godesse di un maggior
favore - strano per il Cardinale presidente che per i ciellini non ha mai avuto
simpatie. Ma anche questa preferenza era funzionale al suo dribbling politico,
gli permetteva di bastonare quelle realtà come l'Azione Cattolica abbastanza
grandi per non poter rientrare nel gioco politicistico del suo do ut des. A mio
avviso, però, l'associazionismo non va troppo enfatizzato: in Italia c'è molta
più gente che va a messa la domenica di quanta ne va al meeting di Rimini, il
grosso del cattolicesimo non è associato, è parrocchiale. E nelle parrocchie si
ritrovano molti problemi non risolti a livello pastorale: convivono le opzioni
politiche di un popolo equamente diviso tra il centro-sinistra e il
centro-destra, ci sono divorziati, conviventi e l'omosessualità è una presenza,
non un problema.
Non c'è il rischio che tutti questi
soggetti finiscano per abbandonare la chiesa ?
Nella grande maggioranza dei casi, queste persone che
vivono ai confini della disciplina della chiesa, mostrano una grande riluttanza
a distaccarsene o a differenziarsi dagli altri fedeli creando gruppi di
pressione sul tipo di quelli americani, organizzandosi, ad esempio, in quanto
cattolici gay. Il vero rischio è che questa gente soffra e la chiesa non è un
posto creato per soffrire. Ho sentito molte cose sbagliate sui Dico, da una
parte e dall'altra. Per me la cosa veramente importante è che stiamo parlando di
una faccenda che riguarda persone concrete, persone che, come diceva papa
Montini, hanno il diritto di "sentirsi amate e cercate".
Marco Revelli dice che le "società di
mezzo", i grandi gruppi di rappresentanza politica, vanno scomparendo. La fine
del partito cattolico, dopo Tangentopoli, doveva lasciare spazio al pluralismo.
Il risultato, invece, è il protagonismo delle gerarchie e l'assenza di qualunque
istanza di mediazione politica. Ci toccherà rimpiangere la vecchia Dc?
Personalmente non la rimpiangerò mai. Non vorrei che si
dimenticasse che il partito cattolico in Italia è naufragato, dopo trent'anni di
esercizio del potere, in un disastro morale senza precedenti e che di quel
disastro la chiesa non era certamente uno spettatore estraneo. Nemmeno quello
che è accaduto in seguito, d'altronde, è una fatalità: il fatto che non ci siano
più luoghi di mediazione politica, al contrario, è il frutto di una scelta
precisa. Quel che invece ha fatto la Cei, soprattutto attraverso l'Avvenire, è
stato di costruire e aggiornare continuamente delle liste di proscrizione,
sparando a zero contro un arco di personaggi che andavano da Scoppola ad
Andreotti. Il vertice di questa ybris autoreferenziale lo si è toccato con il
famoso Non possumus del febbraio scorso, che si presentava come il manifesto non
di un partito, ma addirittura di un megapartito cattolico, solo senza voti e
senza dialettica interna. L'editoriale dell'Avvenire non era stato neanche
preceduto da una discussione all'interno della Cei.
Attilio Scarpellini - Lettera22 il manifesto 17/3/2007