"Il
presidente difende la Costituzione gli interessi politici sono altra
cosa"
intervista a Gustavo Zagrebelsky, a cura di Liana Milella
«La Costituzione è ancora in vigore. E non esiste una costituzione materiale
alternativa». Come
vorrebbero invece quelli del Pdl. L'ex presidente della Consulta Gustavo
Zagrebelsky mette insequenza i fatti e sul Quirinale dice: «È pienamente nel
solco della Costituzione». Come giurista prende le distanze dalle ultime
mosse dei berlusconiani, ma come cittadino «è angosciato». E
sull'ultima stagione dei dossier dice: «L'evocazione della piazza e il
linciaggio giornalistico, quanto
a violenza, sono paragonabili alla brutalità e alla volgarità dell'attacco al
Quirinale».
Mentre Napolitano chiede il rispetto della Costituzione, c'è chi, ministri e
parlamentari del Pdl,
avanzano dubbi, anzi accuse esplicite, d'intenzioni incostituzionali proprio da
parte sua.
Ha detto Bianconi: «La Costituzione la puoi tradire non rispettandola, o
fingendo di
rispettarla». La sua impressione?
«Innanzitutto, si deve distinguere politica e interessi politici da Costituzione
e sua applicazione. La
confusione è molto pericolosa, anzi irresponsabile. Il partito del presidente
del Consiglio e quello di
Bossi chiedono le elezioni anticipate immediate, in caso di crisi di governo.
Questa è una richiesta
politica e, come tale, perfettamente legittima, così come altrettanto legittimo
è che altri pensino a
soluzioni diverse. Il capo dello Stato, come garante di tutte le legittime
posizioni in campo, dovrà
valutare le diverse possibilità alla luce della Costituzione che è in vigore, di
cui è garante, non alla
luce di una costituzione che qualcuno si è costruito nella sua testa, a proprio
uso e vantaggio».
Perché? La richiesta di scioglimento delle Camere e del voto anticipato sono
contro la
Costituzione?
«È contro la Costituzione se la si presenta non come opzione possibile e
auspicata, ma come
soluzione obbligatoria della crisi di governo. Quest'ultima è la posizione dei
critici del presidente
Napolitano. Ma è una posizione insostenibile, anche se sostenuta da giuristi
come i ministri Alfano
e Maroni (del deputato Bianconi non saprei cosa dire)».
Può spiegare perché sarebbe «insostenibile»?
«Si dice: il popolo italiano ha votato e ha scelto un presidente del Consiglio e
un programma. La
legge elettorale prevede che i partiti che si candidano alle elezioni depositano
il programma
elettorale nel quale dichiarano il nome da loro indicato come capo della forza
politica. Da qui,
deriverebbe che non si può cambiare programma e capo del governo senza che il
corpo elettorale
abbia votato di nuovo. Spetterebbe agli elettori confermare o modificare
programma e presidente
del Consiglio. Questo è il ragionamento».
Sembrerebbe non fare una piega.
«Invece la fa. Anzi, è un ragionamento giuridicamente del tutto infondato. La
legge elettorale non
dice che si indica il futuro capo del governo, ma i capi dei diversi partiti che
si presentano alle
elezioni. Se fosse come dicono Alfano e Maroni, saremmo in una repubblica
presidenziale
introdotta dalla legge elettorale. Ma non è così. Il legislatore che ha fatto
quella legge sapeva
benissimo che questo sarebbe stato impossibile, platealmente incostituzionale.
Infatti, la stessa
legge, subito dopo il passo che ho citato, aggiunge che "restano ferme le
prerogative spettanti al
Presidente della Repubblica previste dall'articolo 92 della Costituzione"».
E questa aggiunta è determinante ai fini del nostro caso?
«Sarebbe stata perfino superflua, l'aggiunta. Ma si è voluto evitare ogni
equivoco. L'articolo 92 dice
che è il presidente della Repubblica, non il corpo elettorale con investitura
diretta e plebiscitaria, a
scegliere il capo del Governo, tenendo conto della situazione parlamentare e
della necessità che il
governo ottenga la fiducia delle Camere. Siamo pur sempre una Repubblica
parlamentare. Il
presidenzialismo è solo un desiderio di alcuni e il timore di altri, dunque una
questione
controversa».
Il ministro Alfano ha perfino denunciato la violazione dell'articolo 1 della
Costituzione, ove il
presidente non ridesse subito la parola al popolo. Una denuncia pesante.
L'articolo 1 è quello
che stabilisce che la sovranità appartiene al popolo.
«L'accusa è pesante, ma consiglierei a chi dice queste cose di leggere un poco
oltre. La sovranità
appartiene al popolo il quale "la esercita nelle forme e nei limiti stabiliti
dalla Costituzione". Quello
che si è voluto evitare è, per l'appunto, la deriva populista in atto. La
democrazia è una cosa seria e
delicata, fatta di procedure, garanzie, pluralismo, rispetto delle minoranze,
spirito di cooperazione.
Tutte cose che la Costituzione richiede. L'appello al popolo in una sorta di
giudizio di Dio non è
propriamente l'idea di democrazia costituzionale».
E aver evocata la «costituzione materiale»?
«La costituzione materiale è il consenso di fondo che sorregge la
Costituzione scritta. Si fa un uso
politico strumentale di una nozione che ha una sua dignità scientifica. In poche
parole: non c'è
costituzione materiale se non c'è consenso generalizzato e sulla democrazia
plebiscitaria, al
contrario, c'è conflitto. Questa presunta "costituzione materiale" è
solo un auspicio, un progetto
politico di parte, ma certo non una "costituzione"».
Fin qui lei ha fatto considerazioni da giurista. Ma come cittadino è
preoccupato?
«Sì, e molto. Anzi, angosciato. Vedo in corso un processo fatto non di
discussioni serie, ma di
argomenti pretestuosi che nascondono intenti che ogni tanto lasciano trasparire
un fondo di
violenza. La violenza di chi, avendo il potere, non è disposto a
lasciarlo. L'evocazione della piazza e
il linciaggio giornalistico, quanto a violenza, sono paragonabili alla brutalità
e alla volgarità
dell'attacco al Quirinale. Mi pare il momento in cui tutti coloro che
hanno a cuore il confronto
politico pacifico, come necessità primordiale della democrazia, devono far
sentire la propria voce,
per opporsi a questa deriva in fondo alla quale appare uno scenario
catastrofico».
La Repubblica 17 agosto 2010
«È stata la
risposta più responsabile a una sfida eversiva»
intervista a Stefano Rodotà, a cura di Natalia Lombardo
«Conosco Napolitano, per aver fatto quella nota vuol dire che è arrivato proprio
al colmo
dell’indignazione », commenta il giurista Stefano Rodotà.
Ci può spiegare in quali casi si applica l’articolo 90 della Costituzione?
«Nel caso di attentato alla Costituzione, un caso estremo che hanno preso in
considerazione i padri
costituenti, prevedendo una procedura precisa: è il Parlamento che incrimina il
presidente della
Repubblica, con una maggioranza qualificata. Una tale situazione determina una
crisi
costituzionale. Ma vediamo i dati di realtà: c’è una contrapposizione insistita,
non del Capo dello
Stato verso il presidente del Consiglio, ma, al contrario, un attacco del
premier contro il presidente
della Repubblica. Già il giorno prima dell’aggressione al Duomo di Milano,
Berlusconi parlando ai
Dc attaccò Napolitano e la Corte Costituzionale. Quelli contro la Consulta, con
toni ignoranti della
funzione e della composizione, sono proseguiti; quelli personali a Napolitano
sono stati meno
plateali ma sono continuati».
Fino a questi ultimi giorni, con l’intervista a l’Unità...
«Infatti, Berlusconi non ha parlato esplicitamente, ma di fronte a certe
dichiarazioni da esponenti
della sua maggioranza, un presidente del Consiglio che abbia il senso delle
istituzioni e dello Stato
sarebbe dovuto intervenire. Ecco che torniamo all’articolo 90:
l’irresponsabilità politica del
presidente della Repubblica esige che, di fronte agli attacchi, sia il governo a
coprirlo. Ora non solo
questo non avviene, ma gli attacchi vengono dal governo. Tutto ciò ci porta a
una situazione
eversiva, quindi è del tutto comprensibile la nota di Napolitano: un atto di
grande responsabilità, di
rispetto delle istituzioni e della persona. Di fronte a un tentativo eversivo il
Capo dello Stato deve
mettere ognuno di fronte alle sue responsabilità. E lo ha fatto».
I precedenti di impeachment in Italia?
«L’unico fu quello di Cossiga, io ero in Parlamento e sottoscrissi la richiesta
di un dibattito
parlamentare. Era nato dagli attacchi continui che lui portò alla Costituzione».
Il Pdl, non solo Bianconi, sostiene che valga di più
una«costituzione materiale », il dettato
della Carta superato dalla prassi, e su questo attaccano Napolitano. Da giurista
cosa ne
pensa?
«Per il fatto che Napolitano abbia dato l’incarico a Berlusconi dopo che ha
vinto le elezioni? Ma si
è sempre fatto così, non poteva non farlo. Il cambiamento c’è stato nella legge
elettorale, ma la
nostra resta una Repubblica parlamentare. Lo stesso Napolitano ha ricordato più
volte che i
cambiamenti avvenuti non sono arrivati al punto da trasformare la Repubblica
parlamentare in
presidenziale, o con un regime plebiscitario per cui l’investito dal popolo è
sottratto alla fiducia
parlamentare. Non basta infatti l’incarico dal Quirinale, il presidente del
Consiglio deve avere la
fiducia dal Parlamento. Riassumendo: l’articolo 90 è quello che è, la situazione
vede il tentativo di
delegittimare Napolitano quando il premier avrebbe dovuto difenderlo:
tutto questo rivela la volontà
di spazzare il terreno, eliminare il controllo da parte dei due massimi organi
custodi della legalità
costituzionale: il Capo dello Stato e la Consulta».
Pdl e Lega gridano al «golpe» nell’ipotesi di un governo tecnico.
«Se con le dimissioni di Berlusconi Napolitano sciogliesse subito le Camere,
senza verificare se può
esserci un’altra eventuale maggioranza, questo sì incrinerebbe il tessuto
costituzionale, perché
attribuirebbe al presidente del Consiglio un potere che non ha. Non siamo in
Inghilterra. Napolitano
ha fatto questo tentativo alla caduta del governo Prodi, Scalfaro lo fece con
Berlusconi stesso nel
‘95 e lì si trovò un’altra maggioranza».
Berlusconi lo chiama «ribaltone».
«Fu un Parlamento, non un’assemblea, a sostituire un governo con un altro. E la
scelta di Dini da
parte di Scalfaro era avvenuta sulla base dell’indicazione di Berlusconi stesso,
che allora
riconosceva la legittimità di queste procedure che ora rifiuta. Tra l’altro
Napolitano ha fatto notare
la gravità di una crisi interna e internazionale, quindi sarebbe una forzatura
sciogliere le Camere in
presenza di un’altra maggioranza. Se poi questa non c’è allora è inevitabile.
Insomma,il discorso va
ribaltato »
l'Unità 17 agosto 2010