«Miope e tirchia quell’Italia che chiude la porta ai rifugiati»

Intervista a Christopher Hein.
Il fondatore del Cir: «L’ossessione securitaria rischia di cancellare diritti e civiltà. Anche l’Italia ha avuto i suoi richiedenti asilo, sotto il Fascismo. Lo fu anche Sandro Pertini»



Il rifugiato è prima di tutto un essere umano che ha bisogno di tutela non solo dal momento in cui mette piede in Italia o in un altro Stato dell’Unione europea. Dal momento in cui la persona è costretta a lasciare il proprio paese, dove non trova più protezione, e a intraprendere il viaggio verso l’esilio, quella persona è rifugiata e necessita di aiuto». Un aiuto troppo spesso negato. L’Unità ne parla con Christopher Hein, fondatore del Consiglio italiano per i rifugiati (Cir), partendo dalle conclusioni, su citate, del libro da Hein curato «Rifugiati. Vent’anni di storia del diritto d’asilo in Italia» (Donzelli Editore). «I diritti umani vanni bene riflette Hein fino a quando ci si limita alle parole. Quando però c’è un prezzo da pagare, l’Italia si scopre “tirchia”». E miope.

Qual è la ragione per cui si continua ad alimentare l’equivoco fra migranti e rifugiati?
Le ragioni sono molteplici e di varia natura. Sui media, nell’immaginario collettivo, in Italia esistono i barconi di migranti, mai di rifugiati... L’immigrato è una figura conosciuta che appartiene al vissuto, alla memoria storica dell’Italia. Il rifugiato molto meno, o quasi niente. In Italia si fa fatica a ricordare i rifugiati durante il fascismo. Non c’è una grande consapevolezza che nel Ventennio c’erano antifascisti che hanno chiesto, come Sandro Pertini, asilo in Francia... E quando se ne parla, si fa riferimento all’”esule” e non al rifugiato... Poi c’è una dimensione statistico-numerica: in Italia abbiamo oggi 4,5 milioni di immigrati e forse, tutto sommato, 70mila rifugiati. È chiaro che la questione migrazione, quantitativamente parlando, ha una valenza ben maggiore di quella dell’asilo e dei rifugiati. C’è poi una terza dimensione, più politica....

E in cosa consiste?
Nell’assillo della “governabilità”. Nell’immigrazione, almeno in teoria è possibile stabilire una quota d’ingresso. Invece per i rifugiati non si possono stabilire quote di accettazione. C’è questo elemento d’incertezza: cosa succederà l’anno prossimo in Egitto, in Iran, piuttosto che nei Paesi dell’Africa subsahariana o del Maghreb... e quindi si verificherà un altro esodo di massa come è accaduto durante la guerra nella ex Jugoslavia? Alla base c’è la mancanza di consapevolezza di un valore elementare, sancito peraltro dalla Costituzione italiana. A dominare è la paura verso un fenomeno che può sfuggirti di mano... E così entriamo nel campo della “schizofrenia” politica...

A cosa si riferisce?
Penso al governo Berlusconi che prima fa la legge Bossi-Fini e poi nel 2002, fa la più grande sanatoria di tutti i tempi: quella di 700mila immigrati regolarizzati... Ma allora, che necessità c’è di respingere con la forza 700-1000-1500 eritrei e somali, se allo stesso tempo vari la sanatoria per badanti e lavoratori domestici che ha riguardato circa 300mila persone? Perché rischiare conflitti internazionali, condanne per violazione del diritto di asilo, e questo per 700-1000 persone? Spesso nelle discussioni, quando presentiamo come Cir al nostra proposta di legge in attuazione dell’articolo 10 della Costituzione, ci sentiamo ripetere: ma se domani arrivano a Malpensa, a Fiumicino un miliardo di cinesi a chiedere asilo... Più che un argomento, è una ossessione che, va detto, non è propria solo di chi si riconosce nell’attuale maggioranza di governo. Questa del miliardo di cinesi è una leggenda metropolitana ma che fa effetto.

Guardando al futuro, e avendo bene in mente la vicenda dei 245 eritrei segregati in un carcere libico, come governare il problema dell’asilo?
Ciò che noto è che un Paese come l’Italia che in tante battaglie per i diritti umani è stata in prima fila, protagonista ad esempio sullo Statuto del Tribunale penale internazionale, che non a caso si chiama Statuto di Roma, con la presidenza di Giovanni Conso, o la stessa Convenzione europea per i Diritti umani che è stata siglata a Roma nel 1950, la stessa moratoria sulla pena di morte che ha visto l’Italia svolgere un ruolo di primo piano all’Onu dal momento però in cui applicare i diritti umani, o il diritto di asilo, costa qualcosa, allora c’è un freno, un chiudersi, un respingere... I diritti umani vanno benissimo finché non costano. E visto che l’accoglienza di rifugiati qualcosa necessariamente costa, allora si chiudono le porte. E questo non è solo eticamente sbagliato.

Umberto De Giovannangeli     l’Unità 12.7.10

  

 



«Tre giorni di viaggio nel deserto, 60 in un pulmino... L’inferno»
«Nel lager di Kufra lavori forzati, botte. Cibo e acqua solo a pagamento»

Carceri libiche, i racconti terribili dei migranti al Festival antirazzista Arci


Testimonianze di scampati, somali ed eritrei, dai lager libici: ecco cos’era l’inferno... Sono loro i protagonisti del meeting antirazzista dell’Arci a Cecina. Le violenze dei carcerieri e quelli dei trafficanti.

Cosa sia l’inferno in terra lo racconta A.H.Y, somalo, 26 anni. L’inferno di un lager libico. Dove A.H.Y. è stato segregato. Un lager come quello in cui sono finiti, per otto giorni almeno, 245 eritrei, diversi dei quali respinti dall’Italia. A.H.Y è uno degli ospiti del meeting antirazzista dell’Arci a Cecina. A.H.Y racconta la sua odissea: 300km, molti dei quali in pieno deserto, su camion container, pagando trafficanti diversi per arrivare a Kufra, con la promessa di poter raggiungere Tripoli e di lì l’Italia. Ma a Kufra ha trovato la polizia che lo ha incarcerato insieme ai suoi compagni di viaggio. «Parlare di carcere in Libia dice A.H.Y. è un eufemismo», in realtà sono veri e propri lager, stanze di pochi metri quadri in cui sono stipati in 50, senza servizi igienici, senza possibilità di lavarsi, senza cibo e acqua. E in Libia tutto ha un prezzo: se vuoi lavarti o mangiare devi pagare. Anche per essere liberato devi pagare, e se non puoi farlo devi lavorare: tutto ciò che gli aguzzini pretendono fino a che non ritengono che il lavoro cui ti hanno costretto sia sufficiente per comprarti la libertà».

IN MANO AGLI AGUZZINI
A.M.M ha 20 anni, è somalo e ha ottenuto in Italia la protezione sussidiaria circa un anno fa: proveniva dalla Libia, dove a causa delle violenze subite, ha perso la memoria. A.M.M. racconta della segregazione e della violenza subita dai trafficanti che lo hanno rinchiuso in un deposito fino a quando non sono arrivati i soldi della famiglia per la liberazione. Ma anziché raggiungere Tripoli è finito in mano ad altri trafficanti. Ha tentato di fuggire ed è stato picchiato a sangue fino a fargli perdere la memoria. Quando la riacquista, capisce di essere in carcere. Poi, dopo giorni di lavoro la libertà. Oggi sono in Italia, vivono a Caltagirone. I loro racconti, come quello di T.D. (eritreo, 18 anni), anche lui ospite del meeting dell’Arci, conferma quanto «da tempo l’Arci denuncia sulla costante violazione dei diritti umani in Libia, con cui il Governo italiano ha stretto un accordo di cooperazione in materia di immigrazione», afferma l’organizzazione in una nota.

STORIE DI ORRORE
Presente e passato s’intrecciano nel denunciare l’inferno dei lager libici. Racconta (maggio 2009) Fatawhit,una donna eritrea: «Avevamo già lasciato le coste libiche da tre giorni, quando siamo arrivati all’altezza delle piattaforme petrolifere. D’un tratto in mezzo al mare sorgono delle piattaforme immense da cui escono lingue di fuoco. Proprio da là è uscita una nave che ci ha accostato. Non so di quale paese fosse, credo che l’equipaggio fosse per metà libico e per metà italiano. È stata quella barca che ci ha scortato fino alle coste libiche e ci ha lasciato nelle mani della polizia. Siamo stati prima portati per due mesi alla prigione di Djuazat, un mese a Misratah e otto mesi a Kufra. Il trasferimento da una prigione all’altra si effettuava con un pulmino dove erano ammassate 90 persone. Il viaggio è durato tre giorni e tre notti, non c’erano finestre e non avevamo niente da bere. Ho visto bere l’urina... A Misratah ho visto delle persone morire. A Kufra le condizioni di vita erano molto dure, in tutto c’erano 250 persone, 60 per stanza. Dormivamo al suolo, senza neanche un materasso, c’era un solo bagno per tutti e 60, ma si trovava all’interno della stanza dove regnava un odore perenne di scarico. Era quasi impossibile lavarsi, per questo molte persone prendevano le malattie...

U. D. G.    l’Unità 13.7.10