«Non giriamo la
testa. L'indifferenza è un virus lo dimostra la Shoah»
intervista a Amos Luzzatto, a cura di Umberto De Giovannangeli
L’indifferenza. Il voltare la testa dall'altra parte “tanto non tocca a
me...”, tutto questo noi ebrei lo
abbiamo sperimentato sulla nostra pelle con la Shoah. L'indifferenza
è un virus letale per la
coscienza civile di un individuo, di una comunità, di un Paese. E lo è
anche pensare che il tema
dell'immigrazione sia in primo luogo un problema di ordine pubblico e non
invece, come dovrebbe
essere, un problema di soccorso pubblico; d'integrazione e non di respingimenti,
di “ponti” da
realizzare e non di “muri” da innalzare. Ed è per tutto ciò che trovo
lodevole e condivisibile
l'iniziativa assunta da l'Unità a favore dei 245 cittadini eritrei detenuti, in
condizioni degradate e
degradanti, in un carcere libico ».
Ad affermarlo è una delle figure più rappresentative dell'ebraismo italiano:
Amos Luzzatto.
«Occorre - afferma l’ex presidente dell’Unione delle
Comunità Ebraiche Italiane - sviluppare una
iniziativa che metta l’accoglienza ai bisognosi al centro della nostra
attenzione e al centro anche
degli accordi internazionali che l’Italia sottoscrive». In questa battaglia di
civiltà, rileva Luzzatto,
un ruolo di primo piano devono averlo i media che «non sono solo espressione
dell’opinione
pubblica ma al tempo stesso la formano».
Duecentoquaranta esseri umani, tra i quali donne e bambini, sono da giorni
detenuti in
condizioni disperate, sottoposti a violenze fisiche e psicologiche, in un lager
libico. Cosa c'è
dietro l'indifferenza che circonda questa tragedia?
«C'è il principio, nefasto, che non tocca a me e quindi giro la testa
dall'altra parte; un modo di pensare e di agire che ha avuto il suo peso ai
tempi delle deportazioni della Shoah. È un clima, un
atteggiamento che non sono ancora passati. L'indifferenza alimenta il
pregiudizio e viceversa. Per
questo ritengo che un appello all'opinione pubblica quale quello lanciato da
l'Unità sia importante e
doveroso sostenerlo, soprattutto se è vero che si tratta di persone che, almeno
in parte, avrebbero
diritto all' asilo politico».
L'indifferenza si rispecchia, tranne lodevoli eccezioni, anche sui media.
«Un fatto davvero preoccupante. I media, al tempo stesso, esprimono e formano
l'opinione
pubblica. Sottovalutare o addirittura tacere su eventi drammatici come questo
non contribuisce certo
a formare una coscienza civica più matura e aperta ».
Questa indifferenza significa che i più deboli, gli indifesi, fanno meno notizia
di altro e altri...
«Non si tratta solo dei più deboli. Si tratta di tutti coloro che non hanno
influenza su quello che si
ritiene essere l'interesse concreto e materiale del nostro Paese».
Ma non è nell'interesse del nostro Paese salvaguardare i diritti umani in Paesi,
come la Libia,
con cui l'Italia ha sottoscritto un Accordo di cooperazione?
«Sì, dovrebbe esserlo...».
Ma cosa lo impedisce?
«Due cose: la prima, inafferrabile, è la cultura con la quale si analizza e
si reagisce alle notizie
internazionali. Questa cultura generale, anch'essa in buona parte indotta,
induce molto spesso
all'indifferenza e ad una malintesa neutralità. C'è poi un secondo aspetto sul
quale ho difficoltà a
pronunciarmi...».
In cosa consiste questo aspetto?
«C'è da chiedersi fino a che punto la nostra politica estera presti
attenzione a fatti come quello che
l'Unità ha contribuito a far emergere ».
La vicenda dei 245 cittadini eritrei riporta di attualità il tema
dell'immigrazione. È pensabile
poter affrontare e risolvere questo fenomeno solo in termini di ordine pubblico
e di sicurezza?
«Direi proprio di no. E lo dico non sottovalutando affatto la questione della
sicurezza. Il fenomeno
dell'immigrazione non è prioritariamente un problema di ordine pubblico, ma di
soccorso pubblico.
Finché non si opera questo cambiamento profondo di angolo di giudizio,
problemi come quello di
cui stiamo parlando, si moltiplicheranno ».
Solidarietà. E un termine che ha ancora un senso compiuto, reale, un suo diritto
di
cittadinanza in Italia?
«Io credo di sì, ma ritengo anche che non trovi ancora i canali più adeguati
per esprimersi in maniera efficiente, incisiva. È un problema di canali di
comunicazione e di iniziativa da costruire,
mettendo l'accoglienza ai bisognosi al centro della nostra attenzione e anche
degli accordi
internazionali che l'Italia sottoscrive».
l'Unità 5 luglio 2010
«I media diano
spazio al caso. Rischiamo un auto-bavaglio»
Quando il bavaglio è nella testa: ci sono notizie che i grandi giornali ignorano
o relegano nelle venti
righe di un box. Avviene in questi giorni sulla drammatica vicenda dei 245
eritrei detenuti come
bestie nel carcere libico di Brak, denunciata da l’Unità il 2 luglio. Silenzio
sui grandi giornali, dal
Corriere della Sera a La Stampa, un box «il caso» su la Repubblica
di ieri. Un meccanismo che
Roberto Natale, presidente della Federazione della Stampa, definisce di «autobavaglio.
Non è solo
un problema di censura, ma anche di autocensura». Un silenziatore «non
imposto da alcuna legge».
Così destini segnati non hanno «dignità di notizia», mentre «un tg dedica un
servizio su come si
aprano le bottiglie di champagne con un colpo di sciabola...». Silenzio stampa.
Ieri dal deserto è arrivato l’ultimo grido afono per sms:
«Stiamo morendo, aiutateci». A rompere il
silenzio ad alta voce, nel deserto dell’informazione italiana, è stata
l’Unità venerdì scorso,
raccogliendo l’appello dei detenuti comunicato da un sacerdote, accendendo un
faro sulle loro
condizione disumane nel buio di tre celle.
Il primo luglio il manifesto ha raccontato la prima tappa infernale degli
eritrei a Misratah, altri
articoli sono usciti fino a ieri. Il 2 luglio il Tg3 ha ripreso la notizia
«gridata» a ragione da l’Unità
già nell’edizione delle 14 con un lungo servizio e la voce di chi sta vivendo il
dramma, approfondito
la sera su Linea Notte. Notizia e servizi anche su RaiNews e
Sky. Ieri l’Avvenire, quotidiano della
Cei, ha riservato una pagina alla «sorte dei respinti »; Terra, quotidiano
ecologista, un ampio
riquadro alla voce «diritti umani». Diritti che si restringono su Repubblica,
spariscono sugli altri
giornali, anche quelli agguerriti nel difenderli. Il 2 luglio la notizia è stata
rilanciata dalle agenzie di
stampa e ripresa da numerosi parlamentari Pd, Idv, Udc e radicali, oltre ai
Verdi e qualche voce nel
Pdl; nel governo solo il sottosegretario Boniver.
Roberto Natale parla di qualità dell’informazione: tanto
più in piena battaglia per la libertà di
stampa non ci si può imbavagliare da soli. Ma c’è qualcosa di più
profondo, secondo il presidente
Fnsi, che si richiama alla «Carta di Roma varata due anni fa, che definisce i
termini corretti da
usare», ma anche l’attenzione ai temi. Sull’immigrazione «in questi anni la
società e la stampa
italiana sono state investite dalla campagna dell’osservazione sicuritaria. Ma
grandissima parte della
nostra informazione ha riportato senza commenti la cifra fornita dal ministro
dell’Interno Maroni
alla Festa della Polizia: ha vantato l’abbattimento del 90% degli arrivi di
migranti come un successo
del governo. Ecco, nessuno dei nostri giornali si è chiesto da cosa
derivasse questa cifra, o che fine
abbiano fatto gli immigrati. La risposta ora c’è, ed è drammatica».
Ma «se il rispetto della vita umana non è solo retorica, si deve avere
attenzione su vite che
spariscono nel nulla, anche in conseguenza delle politiche italiane sui
respingimenti», conclude
Natale.
Natalia Lombardo L'Unità 5
luglio 2010