«Qua ci giochiamo la libertà»: al Quirino la rivolta degli scrittori
Nel teatro romano decolla bene l’iniziativa degli editori: da Scarpa a Camilleri, da Rosetta Loy a Nadia Urbinati Rodotà: «Le persone tornano a essere opinione pubblica»


La reazione c’è: da carne da macello per i sondaggi, le persone stanno tornando a essere opinione pubblica» scandisce Stefano Ro-
dotà: il teatro Quirino ieri era pieno per l’apertura di «I libri sulla libertà», iniziativa degli editori contro la legge bavaglio, che organizza reading di scrittori, giornalisti e gente comune nelle centinaia di librerie che hanno aderito. In questo teatro nel cuore di Roma sono accorsi Andrea Camilleri, Guido Crainz, Rosetta Loy, Tiziano Scarpa, Nadia Urbinati e molti altri per leggere i testi più o meno sacri della libertà democratica. E con loro oltre a Rodotà, sono intervenuti anche Giovanni Sartori e Alessandro Pace. Dopo aver letto l’appello di Concetto Marchesi agli studenti dell’Università di Padova, un j’accuse «All’intera classe dirigente italiana» che sembrava scritto oggi e risaliva al 1943, Camilleri ha ricordato che la Legge bavaglio ha come obbiettivo non solo la stampa, ma anche «garantire ai mafiosi e ai corrotti della cricca di fregarci indisturbati nel più assoluto silenzio». Avrà sobbalzato il fantasma di Pericle constatando l’emozione del pubblico alla lettura di Loy del suo «Discorso agli ateniesi» del 461 a. C, e applaude anche Suor Rita Pintus delle librerie Paoline, catena che ha aderito come Feltrinelli e molte altre all’iniziativa, da cui si è tenuto lontano Mondadori sia come editore sia come catena libraria, ma a cui hanno aderito alcune librerie del gruppo.

 

«In materia di stampa non c’è via di mezzo tra la servitù e la libertà» è la conclusione secca di Nadia Urbinati alla lettura di Democrazia in America di Alexis de Tocqueville: da Antonio Gramsci a Leone XIII, passando per Indro Montanelli, ripescato dal suo allievo Marco Travaglio, Elsa Morante, John Stuart Mill, letto da Corrado Augias, fino a Sergej Dovlatov, sembrano tutti testi di questi ultimi giorni sulla situazione italiana. «La lesione del circuito dell’informazione è palese – spiega nel suo intervento Rodotà –, ma ci sono anche segni positivi: gli editori dei giornali minacciano la disobbedienza, i parlamentari potranno inserire negli atti parlamentari le inchieste, come accadde durante la guerra nel Viet Nam con i “Pentagon papers”, in modo da farli diventare atti pubblici. E l’organizzazione “Reporters sans frontière” ha offerto il suo sito per pubblicare le notizie proibite in Italia. Solo nei regimi totalitari però i cittadini sono costretti a leggere le notizie sul loro paese nei siti internet stranieri». Ci sono anche critiche alla sinistra, considerata da molti corresponsabile del degrado a cui Berlusconi sta portando l’Italia: e su questo Sartori prende un applauso lunghissimo.
«È mancata una reazione morale, sulle libertà non si può trattare, non si negozia»: sintetizza così gli umori del pubblico Giuseppe Laterza editore che assieme a Marco Cassini di Minimum fax, e Stefano Mauri, del gruppo Mauri Spagnol, è stato tra i promotori dell’iniziativa. Gli chiediamo se l’adesione di oggi fa ben sperare? «È straordinaria, ma più interessante è quella degli altri editori, dalle Edizioni San Paolo a De Agostini, e delle piccole librerie che organizzeranno in questa settimana i reading, senza considerare le 12 mila firme al nostro appello tra cui quella spontanea dello storico britannico Eric Hobsbawm». Ma perché gli editori di libri si stanno muovendo per i giornali, avete paura dell’indice? «Siamo stanchi del veleno che viene sparso nella società italiana, inquina il terreno della lettura e costringe gli italiani a guardare la televisione».

 

Luca Dal Frà    l’Unità 1.6.10

 

 





"Disobbedienza civile"

 

Fermiamoli. Intervista a Nadia Urbinati
per garantire il rispetto della Costituzione»
La studiosa: questa protesta significa rischiare, assumersi responsabilità e colpa È un atto politico ma è anche una scelta basata sul coraggio dei singoli


Ma la coscienza è la definizione che alla fine trova Nadia Urbinati, politologa “pendolare” fra Stati Uniti (dove insegna alla Columbia University) e l’Italia. È la cattiva coscienza di una maggioranza che forza il dettato costituzionale sapendo di farlo. Ed è questa la ragione che spiega, sul piano etico e politico, perché si sta producendo in Italia una situazione che dà senso alla disubbidienza civile. Malacoscienza perché quella maggioranza «sa bene che è altamente probabile che il testo sulle intercettazioni non potrà superare il vaglio della Corte Costituzionale. Però potrà sfruttare ai propri fini il lasso di tempo in cui la legge sulle intercettazioni sarà quella approvata dalla maggioranza in Parlamento, e questo produrrà un danno alle nostre libertà».

 

Lei considera quindi opportuna la disubbidienza civile in queste circostanze? «La disubbidienza civile è l’ultima risorsa, l’estrema ratio. È un’azione certamente politica ma che è messa in atto da individui, dal singolo giornalista, dal singolo magistrato che rischia. Prima di questo, la situazione ottimale sarebbe la mobilitazione politica più ampia possibile, attraverso l’impegno individuale e collettivo dei cittadini, attraverso la battaglia parlamentare e la mobilitazione dell’opinione pubblica, per cambiare o non fare approvare la legge. Quando tutti questi tentativi saranno stati fatti, se nonostante tutto questo, il ddl sulle intercettazioni sarà legge, allora la disubbidienza civile è a mio avviso eticamente giustificata».

 

Dunque lei auspica, prima di tutto, una mobilitazione politica che eviti l’approvazione del disegno di legge? «Tutto quello che si può fare come iniziativa politica e parlamentare, fino al ricorso alla Corte Costituzionale. Ma bisogna sapere che, una volta che ci sarà la legge, prima che l’Alta
Corte si pronunci, passerà del tempo e questa legge produrrà sofferenza e danno alle nostre libertà costituzionali: sul piano della libertà di stampa, perché la nostra Costituzione ne prevede la limitazione solo in caso di grave rischio per l’ordine pubblico. E sul piano della separazione dei poteri, per i limiti che vengono imposti al lavoro dei magistrati. Io non sono una giurista ma mi pare che la Corte costituzionale non potrà ammettere questa legge. E le decisioni di maggioranza sono legittime solo nel rispetto del quadro costituzionale».

 

È questo che giustifica il ricorso alla disubbidienza? «Sì, in una società democratica e costituzionale la disubbidienza civile è eticamente giustificata dal conflitto della legge con la norma superiore e fondativa dell’unità dello Stato. In questo conflitto vince la Carta costituzionale. Fu così in America, nella lotta contro la segregazione razziale. La disubbidienza non è il sovvertimento dell’ordine costituito, non è illegalità ma, al contrario, affermazione dei principi che stanno a fondamento dello Stato».

 

Si sta riferendo alle battaglie per i diritti civili degli anni Sessanta? «Il caso più celebre è quello di Martin Luther King, ma non fu il solo, ci furono molti casi di disubbidienza civile. Le leggi che proibivano ai neri di sedere negli stessi autobus con i bianchi, per esempio, erano in contrasto con la dichiarazione d’Indipendenza e con la Carta dei diritti».

 

Lei dice che questi sono i casi in cui la disubbidienza civile è eticamente e politicamente giustificata, ma chi disobbedisce può appellarsi a norme sancite dal nostro ordinamento?
«No, la disubbidienza civile è un atto di coraggio democratico dei singoli cittadini, che pagheranno per questo. E sanno che dovranno rischiare e pagare. Sanno che andranno incontro a conseguenze, se ne assumeranno la responsabilità e la colpa. Nella nostra Costituzione non c’è il diritto alla Resistenza, di cui pure si discusse nell’assemblea costituente».

 

Jolanda Bufalini    l’Unità 1.6.10