“Ai politici dico:
comunità non immunità”
intervista a Luigi Ciotti a cura di Elisabetta Reguitti
Luigi Ciotti nasce nel 1945 a Pieve di Cadore. Emigrato a Torino, fonda nel 1966
il gruppo “Abele”
che accoglie e aiuta persone emarginate. Nel 1972 viene ordinato sacerdote e
come parrocchia gli
viene assegnata la “strada”. Nel 1995 fonda “Libera - associazioni, nomi e
numeri contro le mafie”.
La prima petizione popolare promossa da Libera porta all’entrata in vigore della
legge 109 del 1996
sull’uso sociale dei beni confiscati ai mafiosi. Sabato Libera e “Avviso
pubblico” organizzano a
Milano la 15esima edizione della “Giornata della memoria e dell’impegno in
ricordo delle vittime
delle mafie”.
Chi sono i mafiosi oggi?
Nella sostanza sono gli stessi di ieri. La mafia è rimasta quella che Rocco
Chinnici definiva
‘ideologia disposta a svendere la dignità dell’uomo in cambio di soldi’. Certo
se la sostanza è
rimasta la stessa, le forme sono cambiate. Oggi i mafiosi non sono più quelli
del latifondo, della
mafia rurale. C’è una quinta mafia, dei “colletti bianchi”, infiltrata
soprattutto nei poteri finanziari e
immobiliari. E’ una mafia che sa muoversi nei mercati economici, che ha
sviluppato competenze,
che sa trovare canali per riciclare e investire le enormi quantità di denaro che
provengono da ogni
tipo di attività illecita. Per questo la lotta alle mafie deve tenere conto oggi
della vasta ‘zona grigia’
che salda le attività criminali alle varie forme di illegalità, corruzione,
abuso. Il problema non sono
soltanto i mafiosi, ma i tanti, troppi che li spalleggiano, fanno da
sponda , fingono di non sapere e
di non vedere, sono convinti che le mafie siano solo un problema del
Sud.
La Lombardia è la prima regione del nord per beni confiscati alla mafia. 665
in 16 diversi
comuni e 164 sono state le aziende sequestrate alla criminalità. La crisi
economica e anche
sociale in che modo contribuisce al radicamento della mafia?
Contribuisce a livello economico, perché le mafie dispongono di liquidità che
può apparire come
una risorsa. Ci sono commercianti, imprenditori, liberi professionisti che
cadono nella rete
criminale anche in buona fede, perché le mafie sono abilissime a presentarsi con
un volto
insospettabile. Contribuisce a livello sociale perché da sempre le mafie
sguazzano nella mancanza
di diritti, di lavoro, di opportunità, comandano dove la disperazione e la
povertà rendono le persone
facilmente ricattabili.
Esiste una politica capace di dire di no alla mafia?
Certo: è quella politica che non tradisce la sua missione di servizio alla
comunità. Fatta di politiche
sociali, culturali, educative che mettono al centro le persone, la loro
inviolabile libertà e
responsabilità. La democrazia funziona solo se ciascuno di noi, nel suo ruolo,
concorre al bene
comune.
Solo un mese fa a Milano il presidente delle associazioni antiracket ha
dichiarato di sentirsi
abbandonato dalle istituzioni. Sembra che la politica non consideri la lotta
alla mafia tra le
priorità…
Non voglio generalizzare. Vedo però un’alternanza di luci e ombre. A fronte del
grande sforzo di
magistrati e forze di polizia, e accanto a iniziative che vanno nella direzione
auspicata, come
l’Agenzia nazionale sui beni confiscati, noto un rilassamento, una
disattenzione su altri piani. Lo
scudo fiscale, il mancato intervento sul comune di Fondi infiltrato dalle mafie,
le forme d’immunità
e di prescrizione dei reati finanziari, la stessa norma della Finanziaria che
prevede la possibilità
della vendita dei beni confiscati sono, per fare qualche esempio, segnali di un
impegno a marce
alterne, quasi schizofrenico, un costruire da una parte e un demolire
dall’altra. Abbiamo invece
bisogno di continuità e di coordinamento. Non basta la sola repressione, ci
vuole impegno
educativo, sociale, culturale.
Nuove inchieste dalle quali emerge come il potere politico alimenti un
sistema clientelare
sempre più istituzionalizzato. Non c’è il rischio che ognuno di noi si convinca
che la
corruzione è normalità?
Proprio perchè esiste questo rischio dobbiamo fare in modo che a diventare
normale non sia la
corruzione ma l’onestà, la trasparenza, il rispetto delle leggi. Non può
essere normale la corruzione
perché non è normale una società che ruba a se stessa, che sceglie il privilegio
e non il diritto, che
mira al beneficio di pochi e non a quello di tutti, che lascia crescere la
disoccupazione, le
disuguaglianze, lo smantellamento dei servizi sociali. Accettare la normalità
della corruzione
significa accettare che non tutte le vite umane abbiano uguale valore, e che a
regolare il rapporto tra
le persone sia la forza, non la giustizia.
Avverte l’esistenza di un’Italia che ha il coraggio di dire “basta”? Le fa
paura la
rassegnazione?
Io giro continuamente l’Italia, e vedo tante persone che il coraggio di dire
basta lo traducono in un
impegno vero, discreto, lontano dalle ribalte, fatto di perseveranza, di
passione, di umiltà. C’è
un’Italia stupenda, disponibile e generosa che non sempre le cronache sono
capaci di intercettare,
convinta che più che le parole siano i fatti a parlare, e che
sempre, anche se non a tempi brevi, i
semi dell’impegno danno i loro frutti. Più della rassegnazione – che nasce a
volte dalla stanchezza e
dal senso di isolamento – mi spaventa l’indifferenza, che è invece un
indurimento, una malattia
dell’anima, qualcosa che ci “mangia” senza che ce ne accorgiamo. E’ il
frutto avvelenato
dell’egoismo, della restrizione dei desideri e delle passioni. Indifferenza
significa vita prigioniera
dell’io, quando invece l’io si realizza e libera solo in funzione della vita.
Di cosa c’è bisogno in Italia oggi?
Di onestà, di corresponsabilità, di giustizia sociale. Di una politica che
scelga la comunità, non
l’immunità. E c’è bisogno di speranza. Una speranza che non è attesa
passiva di un futuro migliore,
ma costruzione del futuro attraverso l’impegno quotidiano di ciascuno di noi. “A
che serve essere
vivi, se non si ha il coraggio di lottare?” scriveva Pippo Fava, il
giornalista siciliano ucciso da Cosa
Nostra il 5 gennaio 1984.
il Fatto Quotidiano 18 marzo 2010