«VINCERÒ LO STESSO LE ELEZIONI»

«Non sono un parlamentare europeo, quindi non andrò all'udienza con il Pontefice […] Non andrò dal Papa ma vinceremo lo stesso le elezioni»: con queste parole l'on.le Silvio Berlusconi ha rinunciato a partecipare all'udienza concessa da Benedetto XVI al Partito Popolare Europeo in occasione del Congresso che tale partito terrà a Roma a fine marzo, nel trentesimo anno dalla sua fondazione. Una decisione presa dal Cavaliere a seguito di discrete ma pressanti sollecitazioni vaticane dopo la valanga di polemiche scatenate dall'annuncio dell'incontro che sarebbe stato certamente utilizzato dal presidente del Consiglio come una straordinaria occasione di propaganda elettorale dopo quella offertagli dall'"amico" Bush col discorso al Congresso degli Stati Uniti.
Una rinuncia fatta a malincuore e presentata dal centrodestra come atto di «rara sensibilità», accolta con sollievo dalla Santa Sede, apprezzata da diversi osservatori e definita con un eccesso di generosità «un bel gesto» da Massimo D'Alema. Il «bel gesto» è stato però accompagnato da una dichiarazione che, a ben leggerla, lo priva di ogni beltà e lo presenta per quello che è: un passo indietro compiuto tardivamente e solo quando è risultato chiaro che la presenza in Vaticano del premier pochi giorni prima delle elezioni avrebbe creato gravi problemi alla Santa Sede e sarebbe risultata dannosa, per un caso di "eterogenesi dei fini", alla stessa campagna elettorale del Cavaliere. C'è infatti nella dichiarazione di Berlusconi un «vinceremo lo stesso» che la dice lunga sulle intenzioni chiaramente propagandistiche con le quali il premier si sarebbe recato in Vaticano. Egli contava di ricevere vantaggi dall'incontro col Papa ma, quando si è accorto che quell'incontro poteva rivelarsi controproducente, vi ha rinunciato affermando, con ostentata quanto finta sicurezza, che nonostante la rinuncia (questo è il significato dell'espressione «lo stesso»), vincerà la competizione elettorale.
Si è trattato di un «lo stesso» che dimostra all'evidenza come Berlusconi abbia concepito l'incontro col Pontefice funzionalmente collegato all'evento elettorale ed abbia considerato la sua rinuncia come la privazione di un'opportunità propagandistica. In una delle sue tante crisi di incontinenza verbale, il premier ha reso quindi palesi gli intenti con i quali si sarebbe recato in Vaticano per incontrare il Papa alla fine di marzo e, più in generale, ha gettato luce sulla concezione che egli ha dei rapporti tra politica e religione, tra istituzioni dello Stato e Santa Sede. Ne prendano buona nota quelle espressioni delle gerarchie ecclesiastiche che sembrano guardare con simpatia alla politica berlusconiana.
Ma non si tratta solo del tentativo di Berlusconi di utilizzare un'udienza pontificia come l'ennesima occasione di propaganda elettorale. C'è molto di più sul palcoscenico politico italiano perché siamo di fronte ad una vera e propria strategia messa in atto dalla destra nostrana per assicurarsi l'appoggio politico della Chiesa cattolica. Ed in questa ottica si sta cercando di consolidare una sorta di "compromesso" antievangelico e tendenzialmente antidemocratico tra il fondamentalismo cattolico e quell'"ateismo devoto" che ha nel presidente del Senato Marcello Pera uno dei suoi più qualificati esponenti. Quel Marcello Pera, autore dell'oramai famoso manifesto xenofobo in difesa della "identità" dell'Occidente, che si è recato da Benedetto XVI per fargli dono del suo libro «Noi, loro ed il Papa», volume che contiene una specie di lista nera di intellettuali indicati come laicisti contrari alla difesa delle radici cristiane.
Incombe quindi da qualche tempo sul nostro Paese l'ombra di un "compromesso" politico per ragioni di potere, religiosamente mascherato, sui concetti-chiave di Dio, civiltà occidentale e famiglia: Dio non come l'Amore assoluto che s'incarna per redimere l'intera umanità ma come un'entità generata dall'esigenza di costruire nell'immaginario collettivo l'idea di un'autorità suprema che con i suoi precetti giustifichi e tuteli "questo" sistema; la civiltà occidentale non come il complesso delle esperienze e delle caratteristiche culturali di una società aperta all'incontro e alla collaborazione con gli altri popoli, ma come una cultura arroccata nella fortezza della propria "identità" e considerata superiore alle altre culture e con esse in conflitto; la famiglia non come cellula della società aperta alla collaborazione ed al servizio ma come nucleo autoreferenziale ripiegato sui propri interessi e garante dell'"ordine" esistente.

Michele Di Schiena   presidente onorario aggiunto Corte di Cassazione          Adista Notizie n.21  2006