“Io non sono
razzista” quante volte è una bugia
Le bastonate a Rosarno, la caccia al rom, il disprezzo per l’arabo barbaro e
puzzolente, i graffiti
contro ebrei e stella di David: una cronaca violenta affolla di titoli neri le
pagine dei giornali e
incendia di odio e di rancore i tg delle serate tranquille di noi gente per
bene. Di gente che si dice
quietamente sicura della propria generosa ospitalità, dello spirito tollerante,
del lavoro che magari
poi anche ci rubano, degl’immigrati che in fondo sono anch’essi brava gente,
quando sanno stare al
proprio posto. Naturalmente, quando sanno stare al proprio posto. Noi non siamo
razzisti, grida in
tv quella mamma con il bimbo in braccio e il forte accento di Rosarno, e non
siamo razzisti
s’indigna quel signore che guarda fisso l’obiettivo. Certo, noi non siamo
razzisti, «ma insomma…»,
ed ecco che in questo «ma insomma» finisce poi per affiorare tutto il
precipitato di risentimenti,
intolleranze, incertezze amare d’un vissuto quotidiano costretto a misurarsi con
un tempo di crisi
profonda, dove l’angoscia di un futuro sempre più critico inchioda a paure
antiche la paura nuova
dell’«altro».
E allora, ha ragione Maroni, e Calderoli con i suoi fazzoletti
verdi? Oppure Bersani? O forse il
cardinal Bagnasco, e il Papa che chiede umanità e comprensione? Ma chi siamo
noi italiani, oggi, di
fronte a un mondo senza più frontiere, di fronte al degrado miserando delle
città violentate nella
loro omogeneità, alla esposizione di costumi e culture che si mostrano tanto
diversi?
Dario Padovan e Alfredo Alietti ci danno i numeri della nostra identità: «Più
del 50% della nostra
società confessa oggi forme e pregiudizi di antisemitismo, e l’anti-islamismo
raggiunge quasi il
79%». Sono dati impressionanti, dicono i due ricercatori; dati che
impressionano, anche per gli
effetti perversi che questa rivelazione di un profondo pregiudizio denuncia in
chiave di convivenza
democratica e multiculturale.
Padovan e Aglietti hanno curato una ricerca (“Il razzismo come legame sociale”)
che il Comitato
torinese Passato e Presente ha condotto su un ampio campione di intervistati
(con il sostegno anche
della Compagnia di San Paolo). La ricerca muoveva dal desiderio di comprendere,
e misurare, come
e quanto il pregiudizio razziale, «ritenuto un residuo di sistemi sociali
obsoleti e superati», stia
invece riemergendo, in forme magari diverse dal passato ma con una sorprendente
capacità di
creare nuove identità e nuove aggregazioni. E ciò che traspare dalle
risposte rivela l’affermarsi di un
«discorso pubblico» (i massmedia, le istituzioni, la cultura del vissuto
quotidiano) di nuovo razzista,
che nello straniero – anche quando «diversamente italiano» – vede una
minaccia al gruppo
identitario, o alla nostra stessa singola individualità.
Etnocentrismo, nazionalismo, autoritarismo, si rivelano
come le categorie ideologiche nelle quali si
condensa la dinamica della resistenza al turbamento che minaccia e inquieta
abitudini consolidate.
Un turbamento che proietta la frammentazione sociale di questi anni di crisi
verso una reazione di
ansia che agli «altri» chiede ossessivamente «rispetto» delle regole, della
separatezza, della
superiorità locale, riconoscimento di una «barbarie culturale» dell’immigrato.
L’«Io non sono razzista» è la negazione autoassolutoria d’un pregiudizio
razziale - assegnato
soltanto a piccole minoranze marginali – che si mimetizza come il desiderio di
non apparire in
contrasto con il «discorso pubblico», che ovviamente non è razzista, per poter
invece rivendicare al
proprio comportamento («Ma insomma…») le ragioni giuste di una
impossibilità a reggere ancora
l’inciviltà dello «straniero». La figura dell’ebreo malvagio e assetato di
denaro è stata ora sostituita
da quella dell’arabo infido e nemico della civiltà cristiana; ma nel nuovo
antisemitismo l’ebreo è
ancora complottatore e manovratore del potere mondiale («dietro l’attacco alle
Twin Tower c’era la
potente lobby planetaria ebraica»), e l’arabo della nuova islamofobia è
ostile all’Occidente,
irrazionale, sessista, un blocco sociale monolitico e separato.
La ricerca di Alietti e Padovan non propone soluzioni politiche, è uno
strumento sociologico di
conoscenza: indica alla nostra società la consistenza e il rilievo di un
fenomeno drammatico. Sta ora
al «discorso pubblico» appropriarsene.
Mimmo Candito La Stampa 28 gennaio 2010