Nazismo nichilismo e l'errore di Ratzinger

 

Vorrei provare a descrivere lo sconcerto col quale ho letto le parole pronunciate da Benedetto XVI

domenica nell'Angelus da Castelgandolfo. Mi ha fatto sobbalzare la naturalezza e quasi la

distrazione con la quale il Papa ha accostato nazismo e nichilismo: «I lager nazisti, simboli estremi

del male, come il nichilismo contemporaneo...». Io non sono filosofo, e tanto meno teologo, ma

l'uso ordinario e non specialistico che si fa, e il Papa stesso fa, di termini come nichilismo, autorizza

chiunque a pensarci e replicare. Che «il nichilismo contemporaneo» costituisca una unica e organica

categoria, mi sembra una convinzione avventata. Che all'ingrosso questa categoria vada assimilata

al nazismo mi sembra un'enormità, che lungi dall'indicare e svelare il male nichilista riduce e

offusca l'orrore nazista. Nazismo –il nazismo arrivato in fondo alla sua strada, il nazismo che ha

compiuto l'opera di Auschwitz, che è quello evocato dal Papa- è un nome che merita di essere

maneggiato con attenzione, se non altro perché nominarlo dovrebbe bastare a combatterlo con ogni

mezzo. Con ogni mezzo, e non solo con l'amore. «Solo con l'amore», si potrà obiettare, è

un'espressione mediocre, che vuole a sua volta ridurre la forza sublime dell'amore. E tuttavia si può

e si deve dire, che «solo l'amore» non avrebbe potuto prevenire e arrestare e castigare Auschwitz.

 

Nel linguaggio ordinario di cui dicevo, nichilismo e relativismo e individualismo sono diventati

sinonimi e disinvoltamente sciorinati, da soli o in serie. Viene così accantonata la distinzione, che

pure si trovò nelle parole del Papa come in quelle di chiunque tenga testa a posto e piedi per terra,

con una misura di relatività che è indispensabile all'intelligenza delle cose (Ratzinger impiegò la

formula paradossale di «assolutismo relativista») –e una misura di individualismo che è

indispensabile alla libertà. Abbiamo dovuto ricordare in questi giorni Giovanni Jervis, oppositore di

una vita delle esuberanze dogmatiche e volontariste (in particolare dell' «antipsichiatria», e della

stessa fase più «antipsichiatrica» del suo amico Basaglia), e autore nel 2005 di un libro

esplicitamente intitolato «Contro il relativismo». Non occorrerà segnalare la differenza fra Jervis e

Ratzinger. Il più strenuo avversario delle avventure antirealiste e soggettiviste della cultura del

Novecento fu Sebastiano Timpanaro, assertore rigoroso del materialismo ateo e leopardiano.

Il Papa ribadisce la sua convinzione che l'umanesimo «ateo» (che peraltro sembra far concidere con

l'umanesimo «non cristiano») sia inevitabilmente destinato all'arbitrio, all'autopromozione

dell'uomo a Dio –e in fin dei conti, in un corto circuito che è il suo, al nazismo (o allo stalinismo, e

insomma allo sterminio e al suicidio dell'umanità). Convinzione decisamente forte e, a volerne

prendere in parola le conseguenze, tale da inibire la sopravvivenza della società umana fin nei suoi

più elementari rapporti quotidiani: quelli fra me e te, per intenderci. Si può confidare nella libertà

personale senza trasformarla in arbitrio e senza innalzarsi all'onnipotenza di un Dio onnipotente, si

può vivere in società sforzandosi di amare il prossimo senza violare la misura, si può riconoscere la

tracotanza, la hybris, senza fare di Dio o degli dèi i titolari offesi della legge. La storia, dite, ha

mostrato a quali infamie e quali orrori possa condurre l' «umanesimo ateo»? Certo: come ha

mostrato a quali abbia potuto condurre il fanatismo della fede, il mettere Dio alla propria testa, e

anche il Dio cristiano. La Chiesa cattolica non ha il monopolio della conoscenza (e tanto meno della

pratica) del bene, così come non ne è esclusa. La strada è difficile, per ciascuno. La fede religiosa

non può essere una compagnia di assicurazioni, né pubblica né privata.

 

Ancora nel breve indirizzo di Castelgandolfo, il Papa ha detto dell'antitesi fra umanesimo ateo e

umanesimo cristiano, che «attraversa tutta la storia». La limitazione a quei due «umanesimi» non

può significare un'ignoranza o una dimenticanza di tanti altri modi di pensare e sentire ed esistere:

umanesimi panteisti o pagani, buddhisti o ebraici, musulmani o agnostici. Sarebbe troppo grossa. E

del resto il discorso papale era riferito ai santi e al loro esempio, e in particolare al loro esempio di

martiri, e dunque ha messo al centro le figure di Teresa Benedetta della Croce, il nome cristiano

dell'ebrea convertita Edith Stein, e di padre Massimiliano Kolbe. Per un non credente –io, per fare

l'esempio più a portata di mano- Edith Stein e padre Kolbe sono figure meravigliose, proprio come

altre, di ebrei ed ebree non convertiti, e di altre persone, magari non credenti, e magari atei, che

vissero e morirono ad Auschwitz, e non furono solo vittime, furono testimoni dell'umanità

calpestata.

Adriano Sofri     la Repubblica 11 agosto 2009

 

 

 

“Ma non riconosce le colpe dei tedeschi”

intervista a Riccardo Di Segni a cura di Giacomo Galeazzi

 

Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, è soddisfatto dell’Angelus sui lager?

«Non vedo passi avanti. Il problema resta la sua interpretazione della Shoah e del nazismo, cioè una

banda di delinquenti che tenne in pugno l’intera nazione tedesca. Rispetto a questa tesi, l’Angelus

non porta sostanziali modificazioni. Da varie parti Benedetto XVI è stato contestato nelle visite ad

Auschwitz e al Memoriale dell’Olocausto “Yad Vashem” perché tiene ben distinte la Germania e il

popolo tedesco dalle responsabilità del nazismo. Rispetto a questo problema, non mi sembra che ora

il Papa si sia spostato dalla sua linea».

La deportazione dell’ebrea convertita Edith Stein, ricordata dal Papa, dimostra che quando

in Olanda la Chiesa denunciò il nazismo le persecuzioni aumentarono...

«I termini reali della questione sono diversi. I nazisti usavano gli ebrei battezzati come una zona

grigia, semiprotetta per indurre la Chiesa a tacere. Nella retata al ghetto di Roma del 16 ottobre ’43

furono rastrellate 1300 persone, ma per ordine di Berlino furono rilasciati i convertiti al

cristianesimo. Quindi era un ricatto, uno scambio perché nella logica dell’epoca alla Chiesa erano

molto più cari gli ebrei battezzati. In Olanda non ci fu un inasprimento generalizzato, i nazisti se la

presero anche con gli ebrei battezzati come Edith Stein per mandare un messaggio alla Chiesa, per

non essere disturbati nelle deportazioni».

Condivide l’interpretazione ratzingeriana del nazismo come negazione di Dio?

«La tesi cara a Benedetto XVI che il nazismo fosse ateo andrebbe approfondita meglio. Quello del

nazismo ateo è un mito da sfatare. Le SS aveva scritto sul cinturone “Dio è con noi”, quindi in

qualche modo i nazisti avevano una loro immagine di Dio. Il nichilismo, poi, è tutt’altra faccenda.

Più volte nella recente riflessione in ambito cattolico il nazismo viene ridotto a un’ideologia

anticristiana che voleva colpire la fede cristiana nella sua radice abramitica. Anche se questo può

essere in parte vero, la sottolineatura di questo solo concetto porta quasi ad una paradossale

conclusione: che gli ebrei avrebbero pagato, solo loro per conto dei cristiani, un odio che non li

riguardava nemmeno tanto direttamente. E ciò senza menzionare abitualmente i responsabili,

complici o silenziosi».

        La Stampa    10 agosto 2009