“Italiani d’America, i mostri eravate voi”
colloquio con Nelson Moe a cura di Jacopo Iacoboni
Quando gli uomini di serie B eravamo noi. Brutti sporchi e naturalmente tutti un po’ mafiosi. «Che
paradosso, è un grande caso di amnesia che proprio in Italia si alimentino nuove chiusure verso gli
emigranti. E pensare che gli italiani negli Stati Uniti sono stati a lungo le vittime del pregiudizio,
soprattutto all’inizio del Novecento». Poi le cose, poco a poco, sono cambiate, ma la strada è stata
lunga, riflette Nelson Moe, professore di Cultural Studies a Columbia University, grande studioso di
emigrazione italiana in America, e autore del recente Traffici criminali. Camorra, mafie e reti
internazionali dell’illegalità (per Bollati Boringhieri).
«C’è questa espressione in inglese, half-life, per indicare materiali che resteranno radioattivi anche
per trecento anni: ecco, il pregiudizio sugli italiani è un po’ così, durissimo a morire. Adesso ormai
gli italiani fanno parte di un establishment potente e temuto, e sono anche ben visti, però non è stato
sempre così, anzi; ovviamente non lo era all’inizio del secolo, ma anche in tutti gli anni sessanta e
settanta il pregiudizio ha resistito, anzi, è rifiorito, complici le grandi serie tv sulla mafia». Sostiene
Moe che esiste un vero «parallelo» tra l’Italia di oggi e l’America dei primi anni del secolo:
«Entrambi i paesi avevano una sostanziale omogeneità, l’America di allora non era ancora
mescolata, aveva un ceppo dominante integralmente anglosassone, ricco, anziano, impermeabile».
Il professore apprende dell’ultima polemica del leader della Lega Umberto Bossi con il presidente
della Camera Gianfranco Fini. Ma il suo discorso ne indica semmai le radici eluse. «Mi sorprende
questo sentimento che Gianni Amelio spiega benissimo nel suo film Lamerica, di italiani benestanti
completamente dimentichi del passato». Seguirlo significa muoversi tra storia, libri, film.
«All’inizio del Novecento in America c’è un miscuglio di disprezzo e ostilità che colpisce
soprattutto i neri e gli italiani, visti come un popolo del sud, mediterraneo, inetto, inaffidabile. Sono
pregiudizi, attenzione, coltivati non solo nei bassifondi, ma nelle élite, economiche e intellettuali:
basti pensare che li nutriva un uomo come Henry James. Pregiudizi che producono eventi come i
fatti di New Orleans, dove nove siciliani vengono massacrati nel 1891 perché ritenuti colpevoli
dell’uccisione del capo della polizia». E fu il più grande linciaggio della storia Usa. Ben presto allo
stereotipo anti-italiano si sovrapporrà il cliché di Al Capone: «L’ascesa del gangster fa coincidere
l’idea di italiano con figure famose, losche, ma quasi affascinanti».
Sarà, paradossalmente, Il padrino a cambiare le cose: «Coppola non sopportava che l’élite wasp,
che considerava corrotta e moralmente non in grado di dare lezioni, si ergesse a giudice, dunque il
senso del film è tutto in quella frase di Vito Corleone: voi wasp pensate che i criminali siamo noi,
ma i veri criminali sono alla Casa Bianca». È la frase chiave di un ribaltamento che nei ‘60 e ‘70
vivrà fasi alterne. «A cavallo del Vietnam la crisi di legittimità di questa identità americana bianca
si sposa con la comparsa sulla scena di gruppi che rivendicano un’identità positiva, i neri,
soprattutto, con Malcolm X, ma anche le donne, gli indiani, e appunto gli italiani». Times they’re a
changing, avrebbe detto Dylan.
Ma il filo sotterraneo della discriminazione, che si credeva districato, può tornare a annodarsi anche
in anni recenti. E a Moe piace il suggerimento di riflettere su un film emblematico dei nostri anni, di
Spike Lee, Fa’ la cosa giusta. Vi si racconta una rivolta di neri di Harlem degli anni quaranta
originata da una rissa in una pizzeria, in cui il proprietario, italoamericano, uccide un nero, che lo
accusa di razzismo. «Spike Lee fa capire che questi italiani, appena arrivati, erano avvertiti come un
pericolo, ma non li giudica: nella sua visione loro e i neri sono, a pari titolo, i grandi discriminati
della storia americana». Ora, con Obama, è il tempo del riscatto: «Ma guardi come sono ancora
trattati i neri dove vivo, al confine sud di Harlem». Gli italiani nel frattempo hanno scalfito l’odio
anche grazie a figure diverse, la musica, il cinema, la politica, «uomini come Frank Sinatra, o
Coppola, o Fiorello La Guardia, sindaco amatissimo di New York». Il soft power, già, anche contro
La Stampa 10 agosto 2009
Italiani brava gente? Non tutti
Caccia grossa allo straniero, Bossi ha quasi ragione. Gli emigranti italiani hanno attraversato mare e
frontiere per lavorare, solo lavorare. Non tutti, purtroppo. Quando i frontalieri lombardi sudavano in
Svizzera venivano chiamati «cinghei», cinque soldi. Per qualche soldo i padroni di casa li
raccontavano disposti ad avventure proibite, spalloni di qualsiasi cosa mentre gli italiani
mediterranei dei cantieri di Zurigo venivano incolpati di peccati immaginari: ossessionavano le
nipoti di Guglielmo Tell, bevevano, gridavano, rubavano. Forse qualcuno allungava le mani.
Qualcuno, fra mille perbene. Capitalizzando i malumori, il dottor Scwarzenbach per poco non vince
il referendum e li rimanda a casa. E il rotondo leader della Lega svizzera ticinese scuoteva la testa
appena parlava di Bossi e Maroni: «Le loro idee possono essere giuste, ma di là dal confine c’è
l’Italia ladrona, sporca e chiacchierona. Insomma non mi fido... ».
La maggior parte degli emigranti sbarcati negli Usa voleva solo lavorare e ha sgobbato, ancora una
volta non sempre e non tutti. Mario Cuomo era governatore di New York, gli chiesi come mai
resisteva al plebiscito che lo voleva alla Casa Bianca. «Ti faccio vedere una cosa». Un negozio di
frutta dove il padre e la madre sbarcavano il lunario: «Era la zona di Vito Genovese, boss
nell’America depressa anni 30. Genovese dava una mano, prestava soldi. I miei lo adoravano. Posso
correre alla presidenza venendo da una famiglia innocente che ha un passato così?».
Canal Street, New York, nel salone di Vincent Gigante, condannato da Cosa Nostra a non uscire mai
di casa per aver sparato a Frank Costello, osservavo la madre di Vincent mentre lavorava ai ferri
sotto un quadro della madonna di Pompei. Dava ordini al figlio destinato ad un futuro di padrino dei
padrini sgridandolo perché non ci serviva il caffé con latte caldo. «Cint, comportati come si deve».
L’apparenza era il grigiore della normalità, ma sono state necessarie altre due generazioni, figli e
nipoti guardati con sospetto, prima che un nome italiano fosse considerato senza peccato. Una volta
ho incontrato Frank Serpico, poliziotto che aveva denunciato tenenti e capitani, italiani come lui ma
corrotti e corruttori. Un Serpico ancora sconosciuto, anni prima del libro e del film con Al Pacino.
Scuoteva la testa: «Com’è difficile liberarci dei delitti di pochi... ». Non sospettava che proprio la
sua onestà stava per cambiare la luce nella quale erano immersi milioni di figli di emigranti. Quanto
tempo deve passare prima che Scharzewnbach-Maroni e Bossi distinguano le persone per ciò che
sono, nel bene e nel male, senza la debolezza di chi ha il sangue stanco e difende il suo niente
dMaurizio Chierici