“Basta fango su don Diana”
Andai a fargli gli auguri, era il suo compleanno. “Allora, Peppì, come festeggiamo stasera: a cena
insieme?”, gli chiesi. Lui disse di sì, era contento. Ricordo quasi tutto di quello che accadde dopo.
Aveva addosso i suoi vecchi jeans e un maglione scuro. Ci trovavamo nel corridoio che separa
l’ufficio della parrocchia dalla chiesa. Io ero alle sue spalle, mi chinai per allacciarmi una scarpa.
Un uomo gli si parò davanti e chiese: “Chi è don Diana?”, e lui risponde: “Sono io”. Gli spari... non
ricordo esattamente quanti siano stati... Ma vedo ancora Peppino che cade con la faccia maciullata
dai proiettili, mentre l’uomo si allontana...».
Erano le 7,20 del 19 marzo 1994. I colpi furono cinque: tutti alla testa e al volto, come se chi li
sparò volesse cancellare dalla memoria di un intero paese lo sguardo sincero e il sorriso che di rado
abbandonava la faccia allegra di don Giuseppe Diana, parroco di Casal di Principe. Con l’energia
dei suoi 36 anni tuonava contro la camorra, e la camorra gliela fece pagare con un gesto che doveva
essere un monito per tutti: lo ammazzarono in chiesa, a pochi passi dall’altare con il Cristo
Crocifisso.
Poi tentarono di uccidere anche il ricordo di lui, facendo girare la voce che don Peppino era stato
ammazzato per una questione di donne, o che era stato punito perché in sacrestia nascondeva un
carico d’armi destinate a una fazione dei Casalesi, da sempre signori indiscussi dell’hinterland
casertano. Un giornale locale pubblicò due titoli in prima pagina: «Don Diana era un camorrista»;
«Don Diana a letto con due donne».
Ma con lui, quel giorno, c’era l’amico di sempre, Augusto Di Meo, fotografo di matrimoni. Vide,
sentì, e corse dai carabinieri a dare l’allarme. Ebbe anche il coraggio di aiutare gli investigatori:
riconobbe l’uomo che aveva sparato, lo fece arrestare e per questo motivo è vissuto a lungo sotto
protezione. «E’ il minimo che potevo fare, glielo dovevo a Peppino».
Il discorso di Natale
Erano anni orribili, quelli: sui giornali e nelle aule di giustizia tenevano banco gli affari sporchi
della camorra e quelli, non meno maleodoranti, dei politici coinvolti nella Tangentopoli napoletana.
Ma erano anche gli anni in cui alcuni sacerdoti svolgevano la loro missione nel modo giusto,
denunciando la violenza criminale e il malcostume che si annidava nelle istituzioni.
Don Diana era fra questi: pronunciava con naturalezza la parola «camorra» in un paese, Casal di
Principe, in cui la camorra ammazzava per niente e sedeva anche sui banchi del consiglio comunale.
Aveva scritto un documento, letto a Natale in molte chiese del paese, intitolato: «Per amore del mio
popolo»: «Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire
miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni criminali... La camorra è una forma di
terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella
società campana... I camorristi impongono regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre
zone diventare senza più alcuna capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori
edili che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario; traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio di
stupefacenti...».
Insomma, don Peppino parlava troppo, e troppo chiaramente. Il procuratore aggiunto di Napoli
Federico Cafiero de Raho, che condusse le indagini sull’omicidio, ricorda quanto fu complicata
quell’inchiesta: «A un certo punto saltarono fuori delle informazioni confidenziali. Indicavano
moventi diversi del delitto, come quella che riconduceva la morte di don Diana alla sua vita privata,
o a un regolamento di conti fra clan in cui il sacerdote sarebbe stato coinvolto. Facemmo tutti gli
accertamenti possibili, non trovammo nessuna conferma. In realtà don Diana era una delle
pochissime persone che aveva manifestato un atteggiamento fermo, duro, contro la camorra. Era
solo, e fu ucciso».
Le sentenze
Quattro camorristi sono stati condannati all’ergastolo per la sua morte: Nunzio De Falco come
mandante; Mario Santoro, Francesco Piacente e Giuseppe Quadrano come esecutori. Se per De
Falco e Piacente manca ancora la sentenza della Cassazione, per gli altri la condanna è definitiva.
Anche per Quadrano, quindi: l’uomo che Augusto Di Meo, l’amico di Don Diana, vide fuggire
dopo aver sparato. «E’ un ricordo che mi brucia dentro come il fuoco - dice -. Per sei lunghi anni
non sono riuscito a entrare in quella chiesa. I ricordi dolorosi erano e sono ancora troppi, anche se
non cancellano l’immagine che porto dentro di Peppino. Un tipo allegro, scanzonato, per nulla
preoccupato delle denunce che faceva durante le omelie. Gli piaceva scherzare: era tifosissimo del
Napoli, un giorno dovevamo andare insieme a vedere la partita ma mi diede buca. Mi arrabbiai
moltissimo. Dopo qualche giorno andò in ritiro spirituale e mi mandò un telegramma: “Ti perdono
dall’alto di questo monte”. Come se il torto glielo avessi fatto io...».
I ricordi
Ora di Don Peppino restano i ricordi degli amici, i suoi insegnamenti e una lapide vicino alla sua
tomba: «Qui giace Don Peppe Diana, ministro di Dio, esempio di vita, di coraggio di giustizia e di
altruismo». Ieri, davanti a quella tomba, si è raccolto in preghiera Don Luigi Ciotti, presidente
dell’associazione «Libera», i cui ragazzi sono al lavoro nelle terre confiscate alla camorra. «Don
Diana ha pagato con il martirio la fedeltà e l’amore per il suo popolo - ha detto -. Di quell’amore
dobbiamo essere grati perché è un esempio che ci ha resi tutti più forti e vigili».
Don Ciotti ha poi incontrato i vecchi genitori del sacerdote ucciso, Jolanda e Gennaro: «Ho detto
loro che il figlio è un martire di giustizia, perché ci ha dato testimonianze della sua fede e del suo
Fulvio Milone