«In Libia violati i diritti umani dei
migranti ma anche dei libici»
Christine Weise, presidente di Amnesty Italia
Il segretariato internazionale di Amnesty International ha inviato una missione
in Libia per verificare la condizione degli immigrati in quel paese. La missione
si è conclusa il 23 maggio. Il report è ancora in fase di lavorazione.
Ma le informazioni emerse finora descrivono un quadro di grave violazione dei
diritti umani. Ne parliamo con la presidente di Amnesty international
Italia, Christine Weise, che esprime la preoccupazione dell'associazione non
soltanto per la situazione dei migranti, ma anche per quella dei libici, in un
paese in cui la repressione del dissenso è la norma. Amnesty ieri ha aderito
alla manifestazione che si è svolta a Roma a piazza Farnese, indetta da
Fortress Europe per protestare contro le politiche migratorie italiane e
libiche. Il momento clou è stata la proiezione del film «Come un uomo sulla
terra», che documenta l'inferno sperimentato dai migranti che attraversano la
Libia per raggiungere l'Europa.
Cosa hanno visto i ricercatori di
Amnesty International in Libia?
I nostri ricercatori hanno visitato il centro di detenzione di Misratah.
Hanno trovato centinaia di persone provenienti soprattutto da Eritrea, Somalia,
Nigeria e Mali. Il centro era molto affollato. Alcuni si trovavano lì già da due
anni. Le persone vivono condizioni molto difficili: dormono sul pavimento, i
servizi sanitari sono insufficienti, non hanno alcun tipo di privacy. Molte
delle persone intervistate hanno detto che questo è uno dei centri migliori,
erano stati trattenuti in luoghi peggiori. Amnesty ha anche raccolto denunce di
migranti non detenuti che lamentano maltrattamenti e discriminazioni da parte
della polizia e dei cittadini. Le autorità libiche hanno sostenuto che in Libia
non sono presenti rifugiati . Le autorità libiche hanno inoltre dichiarato che
non intendono aderire alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Ci hanno detto
che è in discussione un testo di legge sul diritto di asilo, ma Amnesty non ha
potuto prenderne visione.
Cosa pensa Amnesty del trattato di
amicizia e cooperazione tra Italia e Libia?
La nostra valutazione riguarda la completa assenza di elementi
riguardanti la protezione dei diritti umani. C'è stata inoltre una
carenza di trasparenza: non è stato dato modo alle ong di intervenire né nella
fase preparatoria da parte del governo, né nella fase della ratifica - piuttosto
veloce - del parlamento, avvenuta nel febbraio 2009. Organismi come Amnesty non
hanno così potuto proporre modifiche.
La conseguenza pratica di questo
accordo sono stati i respingimenti dei migranti in Libia..
Sono state respinte in mare verso la Libia circa cinquecento persone che
cercavano di raggiungere l'Italia, tra migranti e richiedenti asilo. E'
stato un precedente molto grave. L'Italia ha violato i propri obblighi
internazionali. La Libia non può essere considerato un paese sicuro.
Basti un esempio: i nostri ricercatori non sono stati in grado di sapere che
fine hanno fatto le persone respinte, non si sa chi sono né dove sono.
L'Italia sta lavorando per
esternalizzare qualche fase della procedura per la richiesta di asilo in Libia.
Qual è l'opinione di Amnesty?
Pensiamo che migliorare le procedure di asilo in Libia sarebbe un passo
positivo. E' necessario che chi vuole chiedere asilo politico in Libia ne abbia
la possibilità. Quello che non accettiamo è un'esternalizzazione: non è
possibile negare l'accesso in Italia alle persone che vogliono chiedere asilo
politico in Italia.
Quale messaggio dovrebbe lanciare il
governo italiano al leader libico in occasione di questa sua storica visita,
secondo voi?
Il messaggio che andrebbe lanciato è sicuramente un maggiore rispetto dei
diritti umani in tutti i sensi, nei confronti dei migranti che si trovano in
Libia ma non solo. In Libia esistono molti prigionieri politici e ci sono
molte limitazioni del diritto di riunione, associazione e libera espressione e
una repressione del dissenso molto forte. Non critichiamo la decisione
di avere dei rapporti politici e economici con paesi come la Libia. Quello
che chiediamo è di mettere sempre i diritti umani sul piatto della bilancia.
Quando si decide di avere dei rapporti di questo tipo non bisognerebbe mai
tacere su questo aspetto.
Cinzia Gubbini Il manifesto 11/06/2009
Il leone nel deserto italiano
«Sono qui perché avete chiesto scusa». Questo è il senso più profondo, sfuggito
ai più o che i più fingono di non capire, della visita in Italia del colonnello
Muammar Gheddafi. La prima, una visita «storica». Scusa per le atrocità al
limite del genocidio commesse in Libia dall'Italia (non solo l'Italia fascista
ma anche quella giolittiana). E perché fosse ben chiaro il concetto, anche se
«ora siamo amici» e quel passato è alle spalle, il leader libico è sceso dalla
scaletta dell'aereo con una foto ben visibile appuntata sulla divisa e aprendo
la strada a un vecchietto vestito da beduino.
La foto mostrava la cattura di Omar al Mukhtar, il leone del deserto impiccato
dai fascisti nel 1931 quando aveva più di 80 anni (a proposito: ci sono
voluti 28 anni perché la democratica Italia togliesse il veto al kolossal sul
simbolo della resistenza libica, in onda stasera su Sky, più di quelli che ci
sono voluti alla Francia per consentire la proiezione di «La Battaglia di
Algeri» di Gillo Pontecorvo...) e il vecchio beduino era l'ultimo
discendente vivo di Mukhtar. Il colonnello, per quanto non sia più il paria e il
provocatore dei tempi bollenti della gioventù e, parole del presidente
Napolitano, su Africa e Medio Oriente si esprima con «parole di grande
moderazione e responsabilità», non ha perso il gusto della provocazione. Ora
siamo amici, il passato è alle spalle, ma lui non dimentica.
La visita in Italia era uno dei corollari di tutti gli infiniti e fino all'anno
scorso infruttuosi (e non per colpa dei libici) tentativi di composizione del
contenzioso italo-libico. Una sorta di compensazione morale e anche un simbolo
della fine di un'epoca. Di cui anche l'Italia, per evidenti motivi, dovrebbe
rallegrarsi. Il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione, che comprende
fra l'altro indennizzi italiani pari a 5 miliardi di dollari in 20 anni e la
proclamazione della Libia come partner strategico, è stato firmato nell'agosto
del 2008 dal premier Berlusconi. La partita avrebbe potuto e dovuto essere
chiusa prima da un governo meno di destra e da un premier meno screditato di
Berlusconi, che riconoscesse il debito storico che l'imperialismo
straccione ma non per questo meno assassino dell'Italia aveva contratto
e non onorato con la Libia. Trattandosi di Berlusconi era inevitabile che quel
trattato avesse una connotazione essenzialmente mercantilistico-utilitarista.
Mercantilista perché l'Italia, ora che Gheddafi non è più «il cane matto del
Medio Oriente» da isolare (e da abbattere), rischiava di essere tagliata fuori
dal grande business, energetico ma non solo, che la Libia assicura.
Utilitarista perché l'Italia cercava di «scaricare» sulla Libia (parole di
Amnesty che pure, giustamente, non risparmia critiche al paese nordafricano) «le
proprie responsabilità nei confronti dei richiedenti asilo». Ossia la politica
criminale (e, peggio, la cultura razzista) «dei respingimenti» che ricacciano
gli immigrati nei terribili «centri di accoglienza» libici.
Nel clima fetido in cui si trova l'Italia è facile vedere ed esaurire il
significato della visita di Gheddafi in Italia solo su questo aspetto negativo.
Dimenticando, o fingendo di dimenticarne, i molti altri aspetti. Che vanno dal
debito storico dell'Italia al ruolo prezioso e rispettosissimo delle regole che
la ricca Libia ha svolto in momenti critici dell'economia italiana. E poi al
ruolo che il laico Gheddafi ha avuto lungo la sua quarantennale leadership nel
«contenere» (leggi schiacciare) il fondamentalismo islamico che imperversa
praticamente ovunque nel Maghreb. Allora non si sentivano tutte le accalorate
protesta di questi giorni per i metodi spicci e i diritti umani violati (violati
certamente, anche se molto meno in Libia che in tanti altri paesi i cui leader
sono accolti a braccia aperte e senza fiatare). Oggi dalla Libia arrivano
barconi carichi di disperati alla ricerca della terra promessa. Qualcuno ha mai
pensato cosa sarebbe successo se invece fossero arrivati i kamikaze di al Qaeda
e della Jihad? Protestare è giusto, in certi casi sacrosanto. Ma per favore
senza arzigogoli capziosi tipo Pd e doppia o tripla morale.
Maurizio Matteuzzi Il manifesto 11/06/2009