«L’Italia del G8 il lato oscuro di un paese in eterno debito di
verità»
Conversando con Carlo Lucarelli
Il G8,
ancora il G8. Lo si rivedrà, in Italia, alla Maddalena, ma la memoria torna a
Genova 2001. Il G8 di Berlusconi, dei limoni in piazza Ducale, della zona rossa,
della città vietata, delle inferriate, dei container messi giù a far da muraglia
cinese, il G8 delle botte, del sangue, dei black bloc, della Diaz, di Carletto
Giuliani. Del G8 si è occupato Carlo Lucarelli, il giallista di Parma bravo a
inventare intrighi e personaggi, forse ancora più bravo a ricostruire, con
severità e lucidità (da sette anni), le storie nostre più drammatiche, per la
televisione, il «lato oscuro» dell’Italia, dall’assassinio di Francesca Alinovi
ai casi della mafia, di tangentopoli, delle bombe fasciste, della strategia
della tensione, di Piazza Fontana. Anche il G8, che ora si può rivedere (e
rileggere), pubblicato da Einaudi nella collana Stile Libero. Anche il G8, come
tante altre, una «ferita aperta». E da un primato molto italiano, la
sequenza di ferite che restano aperte una dopo l’altra, cominciamo la
nostra intervista a Carlo Lucarelli.
-Perché, Lucarelli, dobbiamo ancora e sempre parlare di «ferite aperte»?
«Perché si ha paura di fare i conti fino in fondo, perché chi dovrebbe e
potrebbe non si rimette in discussione e non rimette in discussione la propria
storia, perché l’autocensura è sovrana, perché riflettere sul proprio passato
mette paura, perché così gli scheletri negli armadi non finiscono mai...».
-Tanto è vero che non ci manca neppure un armadio della vergogna, che stava
chiuso con le ante contro un muro e che nascondeva i documenti delle stragi
naziste e fasciste. Gli hai dedicato una delle tue inchieste...
«Sì. Vorrei aggiungere: non siamo stati capaci di una riflessione storica e
politica, che si fondasse sul rifiuto dell’ideologia. C’era sempre qualcosa da
difendere, qualcosa per questo da nascondere».
-Uno dei tuoi meriti è di non essere contaminato dell’ideologismo. Vorrei
aggiungere che sei, per fortuna, esente da scoopismo. Il tuo scopo è enunciare i
fatti, mostrare le contraddizioni, porre domande. Però insisto: perché l’autocensura,
gli armadi della vergogna?
«Forse per una semplice condizione storica, perché siamo stati un paese di
frontiera, al confine e al centro della guerra fredda. Sta di fatto che c’è
sempre qualcuno che ha paura della verità. Per cui anche gli altri, la
maggioranza, devono rinunciare alla verità. Prendi piazza Fontana. Una verità
processuale esiste, sappiamo come sono andate le cose. Le sentenze, soprattutto
quelle passate in giudicato, rivelano una sacco di fatti. Ma manca sempre
qualcosa. La verità non si riesce mai a conoscerla fino in fondo, perché c’è
sempre uno scheletro nell’armadio. Perché, se andiamo al dopoguerra e alla
guerra fredda, si potrebbe sempre scoprire che il Pci aveva qualche filo diretto
con lo spionaggio sovietico e la Dc con quello americano. Questa è il lato
oscuro...».
-Il guaio è che il lato oscuro si ripete. Non succede anche per le Br o per i
gruppi fascisti?
«Sì, perché i nostri anni di piombo sono avvelenati da fili remoti che corrono
tra i vari fronti».
-Pensa all’enorme confusione e alla volgare strumentalizzazione che si sono
fatte della guerra e della Resistenza.
«È una storia ormai lontana e una memoria condivisa sarebbe possibile. Invece da
anni si batte sui ragazzi di Salò o sul “triangolo rosso”, che dà un esempio
interessante, perchè c’è una responsabilità in questo dell’antifascismo: aver
occultato i delitti del “triangolo rosso”, che peraltro rappresentano ben poco
rispetto a ciò che furono i delitti del fascismo. Quel mascheramento ha lasciato
spazio alla propaganda d’oggi. È successo con le foibe, dove la dinamica
rimozione-memoria è impressionante. An rivendica la memoria delle foibe, ma
rimuove la violenza fascista...».
-Dall’incendio della Narodni Dom, la casa della cultura slovena di Trieste,
nel 1920, opera delle squadracce nere. Sono stati gli studiosi di sinistra,
primi fra tutti, a ripercorerre la vicenda delle foibe. Torniamo al G8: la
nostra «ferita aperta». Perché lo dobbiamo ricordare?
«Perché ha rappresentato una rottura rispetto ai decenni precedenti. Perchè i
giovani che erano a Genova, i protagonisti del G8, non avevano mai visto nulla
del genere, di quella drammaticità. L’importanza la capisco parlando con la
gente, scoprendo quanti c’erano, quanti sono stati i testimoni. Le immagini sono
indelebili. Quel G8 nella violenza e nel sangue ha scosso le coscienze e proprio
questa impressione, di massa, ci consente di dire che sarà irripetibile. Come
pensare che si possa ripetere un “assalto alla Diaz”? Come pensare che polizia e
carabinieri possano ripetere quei gesti? La nostra polizia e i nostri
carabinieri sono altro».
-Resta la domanda. Ce la siamo posti allora, ce la poniamo oggi. Come è stato
possibile?
«La sensazione è che siano caduti tutti in una trappola».
-Chi ha allestito la trappola?
«Questa risposta viene dalla valutazione storica e politica».
-Alla fine citi la visita dell’allora vicepresidente del Consiglio Fini alla
caserma dei carabinieri, per «stringere la mano» alle forze dell’ordine, come
ricorda un parlamentare di An, Ascierto, un altro ospite dei carabinieri.
«Io registro tre cose: dal punto di vista dell’ordine pubblico, è successo un
casino; qualcuno l’ha lasciato succedere; qualcuno l’ha organizzato. Con una
conseguenza...».
-La fine di un movimento?
«La fine di un movimento. A Genova hai visto l’onda nuova, quella vera, grande,
di grandi idealità. L’onda dei giovani che gridavano che un altro mondo è
possibile. Mi pare che nessuno lo dica più. Mi pare che un corteo come quello
dei trecentomila aggrediti dalla polizia, cresciuto quasi spontaneamente,
giovani e vecchi, cattolici e no, così variegato, così coeso nell’immaginare una
rivoluzione pacifica, non sia più pensabile. Il giorno dopo, è sparito tutto...
Sono spariti per fortuna anche i black bloc».
-Sono rimasti la morte di Carletto Giuliani, la violenza di Bolzaneto, i
processi. Che cosa pensi della morte di Carletto Giuliani?
«Ne abbiamo versioni che lasciano una infinità di dubbi. Come la storia, secondo
la ricostruzione di un perito ufficiale, di un proiettile che intercetta in volo
una pietra, si spezza e una scheggia uccide Carletto».
-Malgrado la documentazione... Genova è stata l’apoteosi delle piccole
telecamere...
«Fu una specie di sperimentazione di massa di nuovi strumenti di comunicazione.
La prima volta che ti fa dire: certe cose non potranno più succedere».
Oreste Pivetta l’Unità 5.3.09
Giustizia è sfatta
Francamente non so se bisogna benedire o maledire quello che è successo. Sia ben
chiaro: la
scoperta che i due immigrati romeni accusati di essere i colpevoli dello stupro
della Caffarella in
realtà non lo sono, è un vero e proprio schiaffo alla nostra coscienza
nazionale.
Vogliamo davvero lasciar passare questo episodio come un ennesimo «disguido»
delle Istituzioni
del nostro Bel Paese, o vogliamo fermarci un attimo a chiederci come sia stato
possibile, e chi ne sia
responsabile? Perché, prima ancora che si sappia bene quel che è accaduto, una
cosa è certa: questo
è un tipico caso in cui almeno un responsabile va trovato e deve pagare.
Vediamo intanto perché la vicenda Caffarella si presenta come più grave dei pur
molti errori simili.
Le indagini italiane non sono un esempio di efficacia. Questa affermazione si fa
molto spesso a
proposito di iniziative «audaci» da parte di magistrati che indagano sulla
politica. In questi casi, c’è
un’attenzione quasi parossistica al tema da parte sia dei giornali che del
Parlamento.
La verità però è che le indagini italiane sono ampiamente carenti anche quando
si tratta di crimini
comuni. La prova? La confusione e le lungaggini in cui si sono insabbiati alcuni
grandi delitti, quasi
tutti dati per altro come «chiariti»: ci trasciniamo ancora fra il pigiama e gli
zoccoli di Anna Maria
Franzoni nella villetta di Cogne, fra il computer e i pedali della bici di
Alberto Stasi, fra le tracce di
Amanda e Raffaele sul reggipetto di Meredith. Quasi tutti i maggiori
delitti del Paese, anche quelli
non politici, periodicamente rigurgitano una nuova prova persa, avvilita,
trascurata o smarrita. Ad
esempio, Profondo Nero, un recente libro di Giuseppe Bianco e Sandra Rizza (ed.
chiarelettere)
riapre l’inchiesta sull’assassinio di Pasolini, collegandolo alla morte di
Mattei e del giornalista De
Mauro, proprio in base a nuove testimonianze.
A differenza dei casi che riguardano la politica, però, gli italiani non
sembrano indignarsi troppo
degli errori nelle indagini di «nera». Anzi: la confusione è diventata
una sorta di nuovo genere di
«soap» giornalistica che si sviluppa nel tempo e con grande godimento di tutti.
Lo stupro della Caffarella presenta una forte novità, figlia di questi nostri
tempi: è un fatto di
violenza, dunque di nera, che assume però una fortissima valenza sociale per il
contesto in cui
avviene. Un caso «transgender» che scavalca le tradizionali distinzioni
fra cronaca e politica.
Della delicatezza della situazione siamo stati consapevoli tutti fin dal primo
momento. E ci siamo
fidati. Fidati, sì. Perché in Italia, nonostante si ami dilaniarsi su tutto fra
Guelfi e Ghibellini, resiste
una profonda fiducia nelle nostre istituzioni. Ogni volta è come se fosse la
prima, per la nostra
opinione pubblica. Ci siamo tanto fidati che quando la polizia ci ha presentato
i suoi mirabolanti
risultati, nessuno di noi ha sollevato un dubbio. Nonostante le Amande, gli
Alberti, le Annamarie e
gli Azouz, abbiamo applaudito e gridato al miracolo. Se non è fiducia nelle
istituzioni questa!
Poi le smentite, e infine la certezza dell’errore. E non si sa se benedire il
disvelamento, o se
maledire la nostra stupidità collettiva. Tutti convinti da parole come
«materiale organico» e «Dna»,
nonché ammiratori del metodo. La polizia ha avuto anche l’impudenza di
presentarci (in una
conferenza stampa!) il racconto di un’inchiesta esemplare, svolta in
collaborazione internazionale
con la polizia romena, con foto e pedinamenti, il metodo tradizionale.
Approfittando così (tanto per
colorare di più la valenza politica del risultato) per dare una bastonata
polemica all’uso delle
intercettazioni.
Ora, di fronte alle smentite, si dice: «La politica ha messo fretta». Ma
non è questo lo scandalo: la
politica fa sempre fretta, ha sempre bisogno di presentare, usare, mangiare.
Scandalosa è
l’incoscienza dei corpi dello Stato che hanno accettato questa fretta. E
scandaloso è soprattutto il
risultato: l’intero Paese si è visto condurre per il naso verso una direzione
che conferma il razzismo
più frettoloso e più rozzo. Cui nessuno è riuscito a sottrarsi, nemmeno
i democratici più convinti.
Qualcuno dei nostri lettori potrebbe alzare la mano e porre una domanda molto
opportuna: ma voi
giornalisti? Perché anche voi vi siete accucciati? È un rimprovero giusto.
Troppo spesso noi
giornalisti facciamo da acritica cassa di risonanza delle indagini. Una
responsabilità che ci è stata
già rinfacciata. E che ci prendiamo.
Ma come dubitare di un teatrino perfetto, come quello messo in piedi dalle
nostre istituzioni? Siamo
di fronte a una vera e propria frode. Qualcuno deve pagare per il clima che
l’episodio lascia in tutto
il Paese, di amaro in bocca e di sgomento.
Lucia Annunziata La Stampa 5 marzo 2009