“Questa Chiesa diventerà una setta”
intervista a Hans Küng a cura di Nicolas Bourcier e Stéphanie Le Bars

Alto e magro, con il volto glabro e il ciuffo ribelle, Hans Küng, considerato il massimo teologo
cattolico dissidente vivente, riceve nel suo studio di Tubinga dai muri tappezzati di libri, dove i suoi
- tradotti in tutte le lingue - occupano il posto d’onore.


Professore, come giudica la decisione del Papa di togliere la scomunica ai quattro vescovi
integralisti di monsignor Lefebvre, uno dei quali, Richard Williamson, è un negazionista?

«Non ne sono rimasto sorpreso. Già nel 1977, in una intervista a un giornale italiano, Monsignor
Lefebvre diceva che “alcuni cardinali sostengono il mio corso” e che “il nuovo cardinal Ratzinger
ha promesso si intervenire presso il Papa per trovare una soluzione”. Questo dimostra che la
questione non è né un problema nuovo né una sorpresa. Benedetto XVI ha sempre parlato molto
con queste persone. Oggi toglie loro la scomunica, perché ritiene che sia il momento giusto per
farlo. Ha pensato di poter trovare una formula per reintegrare gli scismatici i quali, pur conservando
le loro convinzioni personali, avrebbero potuto dare l’impressione di essere d’accordo con il
concilio Vaticano II. Si è proprio sbagliato».
Come spiega il fatto che il Papa non abbia misurato la dimensione della protesta che la sua
decisione avrebbe suscitato, anche al di là dei discorsi negazionisti di Richard Williamson?

«La revoca delle scomuniche non è stato un errore di comunicazione o di tattica, ma un errore del
governo del Vaticano. Anche se il Papa non era a conoscenza dei discorsi negazionisti di monsignor
Williamson e lui personalmente non è antisemita, tutti sanno che quei quattro vescovi lo sono. In
questa faccenda il problema fondamentale è l’opposizione al Vaticano II, in particolare il rifiuto di
un rapporto nuovo con l’ebraismo. Un Papa tedesco avrebbe dovuto considerare centrale questo
punto e mostrarsi senza ambiguità nei confronti dell’Olocausto. Invece non ha valutato bene il
pericolo. Contrariamente alla cancelliera Merkel, che ha prontamente reagito.
Benedetto XVI è sempre vissuto in un ambiente ecclesiastico. Ha viaggiato molto poco. E’ sempre
rimasto chiuso in Vaticano - che è assai simile al Cremlino d’un tempo -, dove è al riparo dalle
critiche. All’improvviso, non è stato capace di capire l’impatto nel mondo di una decisione del
genere. Il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, che potrebbe essere un contropotere, era un suo
subordinato alla Congregazione per la dottrina della fede; è un uomo di dottrina, completamente
sottomesso a Benedetto XVI. Ci troviamo di fronte a un problema di struttura. Non c’è nessun
elemento democratico in questo sistema, nessuna correzione. Il Papa è stato eletto dai conservatori e
oggi è lui che nomina i conservatori».

In che misura si può dire che il Papa è ancora fedele agli insegnamenti del Vaticano II?
«A modo suo è fedele al Concilio. Insiste sempre, come Giovanni Paolo II, sulla continuità con la
“tradizione”. Per lui questa tradizione risale al periodo medioevale ed ellenistico. Soprattutto non
vuole ammettere che il Vaticano II ha provocato una rottura, ad esempio sul riconoscimento della
libertà religiosa, combattuta da tutti i papi vissuti prima del Concilio». L’idea di fondo di Benedetto
XVI è che il Concilio vada accolto, ma anche interpretato: forse non al modo dei lefebvriani, ma in
ogni caso nel rispetto della tradizione e in modo restrittivo. Per esempio è sempre stato critico sulla
liturgia. E ha una posizione ambigua sui testi del Concilio, perché non si trova a suo agio con la
modernità e la riforma, mentre il Vaticano II ha rappresentato l’integrazione nella Chiesa cattolica
del paradigma della riforma e della modernità. Monsignor Lefebvre non l’ha mai accettato, e
nemmeno i suoi amici in Curia. Sotto questo aspetto Benedetto XVI ha una certa simpatia per
monsignor Lefebvre. D’altra parte trovo scandaloso che, per i 50 anni dal lancio del Concilio da
parte di Giovanni XXIV, nel gennaio 1959, il Papa non abbia fatto l’elogio del suo predecessore, ma
abbia scelto di togliere la scomunica a persone che si erano opposte a questo concilio».
Che Chiesa lascerà questo Papa ai suoi successori?
«Penso che difenda l’idea del “piccolo gregge”. È un po’ la linea degli integralisti: pochi fedeli e
una Chiesa elitaria, formata da “veri” cattolici. È un’illusione pensare che si possa continuare così,
senza preti né vocazioni. Questa evoluzione è chiaramente una restaurazione, che si manifesta nella
liturgia, ma anche in atti e gesti, come dire ai protestanti che la Chiesa cattolica è l’unica vera
Chiesa».

La Chiesa cattolica è in pericolo?
«La Chiesa rischia di diventare una setta. Molti cattolici non si aspettano più niente da questo Papa.
È molto doloroso».
Lei ha scritto: «Com’è possibile che un teorico dotato, amabile e aperto come Joseph
Ratzinger abbia potuto cambiare fino a questo punto e diventare il Grande Inquisitore
romano?». Allora, com’è possibile?

«Penso che lo choc dei movimenti di protesta del 1968 abbia resuscitato il suo passato. Ratzinger
era un conservatore. Durante il Concilio si è aperto, anche se era già scettico. Con il ‘68, è tornato a
posizioni molto conservatrici, che ha mantenuto fino a oggi».
Lei pensa che possa ancora correggere questa evoluzione?
«Quando mi ha ricevuto, nel 2005, ha fatto un atto coraggioso e io ho veramente creduto che
avrebbe trovato la via per le riforme, anche se lente. In quattro anni, invece, ha dimostrato il
contrario. Oggi mi chiedo se sia capace di fare qualcosa di coraggioso. Tanto per cominciare,
dovrebbe riconoscere che la Chiesa cattolica attraversa una crisi profonda. Poi potrebbe fare un
gesto verso i divorziati e dire che, a certe condizioni, possono essere ammessi alla comunione.
Potrebbe correggere l’enciclica Humanae vitae, che nel 1968 ha condannato tutte le forme di
contraccezione, dicendo che in certi casi l’uso della pillola è possibile. Potrebbe correggere la sua
teologia, che data dal Concilio di Nizza (325). Potrebbe dire: “Abolisco la legge del celibato”. È
molto più potente del Presidente degli Stati Uniti! Non deve rendere conto a una Corte Suprema!
Potrebbe anche convocare un nuovo Concilio».
Un Vaticano III?
«Permetterebbe di regolare alcune questioni rimaste in sospeso, come il celibato dei preti e la
limitazione delle nascite. Si dovrebbe prevedere un modo nuovo per eleggere i vescovi, che
contempli il coinvolgimento anche del popolo. L’attuale crisi ha suscitato un movimento di
resistenza. Molti fedeli si rifiutano di tornare al vecchio sistema. Anche alcuni vescovi sono stati
costretti a criticare la politica del Vaticano. La gerarchia non può ignorarlo».
La sua riabilitazione potrebbe far parte di questi gesti forti?
«In ogni caso sarebbe un gesto ben più facile del reintegro degli scismatici! Ma non credo che lo
farà, perché Benedetto XVI si sente più vicino agli integralisti che alle persone come me, che hanno
lavorato al Concilio e l’hanno accettato
».
 

in “La Stampa” del 25 febbraio 2009

 

 

Un artefice del Vaticano II, divenuto l'instancabile critico del papato

Di lui si dice che il gemello diverso di papa Benedetto XVI, un nuovo Martin Lutero. Si dice anche
che avrebbe potuto diventare cardinale, e anche di più.
Quest'uomo di 81 anni, originario della Alpi svizzere, ordinato prete a 26 anni, fu uno dei più
giovani esperti chiamati a partecipare al concilio Vaticano II (1962-1965). Ha tenuto testa ai
contestatori del 1968. Criticato la gerarchia della Chiesa cattolica. Denunciato l'atteggiamento di
Roma sul matrimonio dei preti, la contraccezione e l'ordinazione delle donne. Nel 1979, dopo la
pubblicazione di un libro sovversivo sull'infallibilità del papa, il Vaticano gli toglie il diritto di
insegnare all'università di Tubinga. Diventa allora critico instancabile del papato, incarnato da
Giovanni Paolo II, poi dal 2005 da Benedetto XVI.
Il papa tedesco fu suo amico. Si erano trovati insieme fin dal 1957, rappresentando entrambi, al
concilio, la teologia germanofona lodata dai vescovi progressisti tedeschi. A partire dalla fine del
Concilio, la loro valutazione sugli sconvolgimenti indotti dalla nuova dottrina della Chiesa
divergono. Joseph Ratzinger, legato alla tradizione, in particolare liturgica, prende rapidamente le
distanze dagli “eccessi” postconciliari della Chiesa. Da parte sua, Hans Küng, che si è battuto
contro le manovre conservatrici di certi membri della Curia, avrebbe desiderato che la gerarchia
cattolica andasse ancor più in là. L'analisi dei movimenti di contestazione del 1968 finisce per
scavare il fossato ideologico tra i due uomini.
Riforma profonda
Nel 2005, alcuni mesi dopo la sua elezione, Benedetto XVI invita il suo ex collega di Tubinga. Fu
una conversazione franca che durò quattro ore, ma non giunse a niente di concreto. Quattro anni
dopo, Hans Küng continua a pensare di poter essere un buon consigliere per questo papa, che gli
pare sempre più lontano e staccato dal mondo. “Non ha avuto un'evoluzione, e sono sicuro che se
gli si domandasse perché noi abbiamo opinioni divergenti, lui direbbe: 'È Küng che è cambiato,
non io!'”
Triste più che amareggiato di fronte alla china pericolosa che secondo lui sta prendendo la Chiesa
cattolica, il teologo non si dà per vinto e continua a pubblicare, insegnare, predicare. Assicura
tuttavia che le sue lotte per una profonda riforma della Chiesa cattolica gli interessano meno della
causa che difende da una ventina d'anni: il riavvicinamento tra le religioni. Una dinamica
suscettibile di creare “un'etica universale” applicabile alla scienza, all'ambiente, ai rapporti sociali
e alla pace.

di Nicolas Boursier e Stéphanie Le Bars      in “Le Monde” del 25 febbraio 2009

 

 

Il Vaticano II è stato solo una svolta sopravvalutata dai cattolici

Nei paesi di lingua tedesca, e anche altrove, regna l'indignazione. Particolarmente in Germania
molti deplorano che proprio un papa tedesco sia stato colui che ha aperto le porte della sua Chiesa al
ritorno di un negazionista notorio. Ciò ha addirittura risvegliato il sospetto di un possibile
antisemitismo del papa stesso. Ma la vera questione non è quella, e ne nasconde altre, ben più
importanti.
È chiaro come l'acqua di sorgente che il papa non ha niente a che vedere con il razzismo né con
l'antisemitismo. Lo ha riaffermato lui stesso e questa certezza era acquisita da tempo. Lo si deduce
tanto dalle sue convinzioni filosofiche che politiche. Rimettere sul tappeto questo problema è sia
sciocco che controproducente.
Tuttavia ciò non significa che non sia successo nulla. Lo scandalo c'è e come. Dei cristiani di base
sono in rivolta, aumentano i credenti che lasciano la Chiesa cattolica; il malcontento ha raggiunto
perfino i prelati tedeschi ordinariamente docili. L'indignazione è ancora più forte rispetto a quella
suscitata dall'infelice discorso di Ratisbona. Allora, il papa, convinto del carattere razionale della
sua fede, intendeva fare un'offerta di dialogo all'islam e a tutti gli uomini di buona volontà. Ma da
professore che ha in mente un riferimento originale e cerca di proporlo ad ogni costo, si è affrettato
a lasciare da parte la proposta per presentare la sua sintesi, cioè l'elogio di una sterile ragione di stile
“greco” - che del resto non è mai esistita e si oppone alla maggior parte dei pensatori cristiani che,
fin da Duns Scoto (1268-1308), operano una separazione netta tra filosofia e teologia.
I musulmani si sono sentiti feriti dalla citazione offensiva nei loro confronti, espressa verso il 1400
da un imperatore bizantino! Dei protestanti attenti si sono considerati esclusi dal cristianesimo
autentico; la modernità nel suo insieme era votata al disprezzo.
La costernazione è stata generale.
Anche chi concedeva al Santo Padre il beneficio della buona intenzione ha visto i disastri ovunque.
Anche con gli integralisti, le intenzioni del papa erano eccellenti. Lui stesso e i suoi difensori
affermano che, revocando le scomuniche dei quattro vescovi della Fraternità San Pio X, aveva in
vista esclusivamente la restaurazione dell'unità della Chiesa. Invece, anche in questo caso, tale
riabilitazione lascia l'unità della Chiesa in uno stato più pietoso di prima. Il papa si sente
sufficientemente rassicurato dalle sue buone intenzioni e dalla sua competenza di teologo: del
mondo a cui si rivolge ha solo una visione imprecisa, che nessuno rettifica per lui. È circondato da
una gigantesca amministrazione che non gli serve a niente.
Né lascia che la curia gli si avvicini, né tanto meno i suoi esperti riescono ad impedire al loro capo
di gettarsi nella bocca del lupo. Ieri, a Ratisbona, non ha riflettuto né sul senso né sull'effetto del suo
attacco a Maometto. Oggi, non si è preoccupato un istante di sapere chi fossero i quattro integralisti
per i quali revocava il decreto di scomunica. Il risultato è disastroso.
Gli amici e gli zelanti servitori del papa scaricano tutta la colpa sul cardinale Tarcisio Bertone,
segretario di stato della curia romana o, ancor più, sul cardinal Dario Castrillon-Hoyos, incaricato
delle relazioni con gli integralisti. Ma lui ha almeno domandato la loro opinione? Che Richard
Williamson neghi l'olocausto era un fatto conosciuto da tempo. Da anni. Il 22 gennaio si è diffuso a
mezzo stampa; ed è il 24 gennaio che è stata resa pubblica la decisione papale. Quindi c'era stato
tutto il tempo, l'agio e l'opportunità di soppesare nei minimi particolari il pensiero di Richard
Williamson. ma sarebbe rimasto a lungo nell'ombra se il papa non avesse avuto l'idea di testare le
sue virtù di riconciliazione proprio su questo individuo! Ma il personaggio principale del dramma è
Ratzinger, non Williamson, e ancor meno la curia.
Certo, la difesa e la dimostrazione dell'unità della Chiesa rientrano nel dovere del suo pontificato.
Ma qual è il concetto di unità che sta alla base di questa corrente?
È qui che sta il problema. È un
concetto ecclesiastico tradizionale, romanocentrico. L'unità con i cristiani d'Africa, con gli adepti
della teologia della liberazione e con i non-conformisti tedeschi preoccupa molto meno il papa della
riconciliazione con gli integralisti. Per questo spera di contare su dei solidi fondamenti che
nemmeno il Vaticano II ha eroso: la condanna, incessantemente avanzata, del relativismo, che cos'è
se non un altro modo di proclamare che fuori dalla sua Chiesa non c'è salvezza?
Questo spiega
perché le sue offerte di “dialogo” siano immediatamente destinate a fallire.
 

Sì, Ratzinger prende le distanze dall'antisemitismo come dal tradizionale antigiudaismo della
Chiesa, ma mette avanti da sempre la sua rivendicazione di esclusività, come la Fraternità San Pio
X e come coloro che l'hanno preceduto. In questo si ricollega anche lui ad una lunghissima
tradizione antiliberale propria del cattolicesimo romano – che loro chiamano antirelativismo -, ad
una concezione del peccato, del battesimo e dell'unicità della Chiesa autentica. Da qui la prossimità
con gli integralisti. Da qui l'interesse che lui vede nell'avvicinarsi a loro.
Benedetto XVI, all'unisono con i suoi predecessori, afferma che l'infallibilità papale non si esercita
solo in circostanze straordinarie in occasione di decisioni riguardanti dei punti dottrinali, in altre
parole nel contesto ufficiale e fastoso della proclamazione di dogmi, ma anche nell'insegnamento
ordinario.
Cosa dice la formula? Ai cattolici, l'obbedienza in materia di fede è richiesta in tutto “ciò che, in
virtù della dottrina generale e abituale, è richiesto di credere come a un dogma rivelato da Dio”.
Al vescovo di Roma, il cattolico deve “l'obbedienza della volontà e della ragione”, anche quando
non parla ex-cathedra. Ne derivano l'esclusione teologica dell'ebraismo e dell'islam, la secolare
liturgia della messa in latino, nonché la credenza nel regno del demonio sulla terra, la concezione
agostiniana del peccato originale, e molte altre cose ancora.

Il teologo Ratzinger sa che, su tutti questi punti dottrinali, è molto più vicino agli integralisti che ai
suoi confratelli che ornano retrospettivamente il concilio Vaticano II di tutte le virtù. Certo, il
Vaticano II ha portato del nuovo per quanto riguarda la libertà religiosa e l'esegesi biblica, ma senza
nulla togliere al primato del vescovo di Roma né al primato della giurisdizione del papa.

Per il Collegio episcopale, il concilio ha realizzato delle svolte di poca importanza, teologico-cosmetiche
insomma, senza dei veri effetti sul diritto canonico. Un'enorme propaganda unita ad una
messa in scena spettacolare hanno fatto apparire il Vaticano II più rivoluzionario di quanto non sia
stato in realtà, e la centrale romana lotta da decenni contro questa percezione che è piuttosto
autopersuasione.

È precisamente in questo contesto che sopraggiunge la molto unilaterale riconciliazione con gli
integralisti. Anche senza il vescovo Williamson, il ritorno della Fraternità nel grembo della Chiesa
avrebbe irritato e disgustato. Anche se il papa non era a conoscenza del negazionismo di un
Williamson, non poteva al contrario sfuggirgli che avrebbe colpito molti cattolici nella loro
sopravvalutazione spesso confusa dell'ultimo concilio. Questo lo ha deliberatamente considerato.
Il papa voleva assicurare l'unità della sua Chiesa, ma una unità forgiata sulla concezione
tradizionalista che è la sua. Lo stupore del mondo, l'irritazione dei cattolici riformisti, la collera
degli ebrei e le opinioni ed esternazioni di un signor Williamson erano per lui una cosa trascurabile.
Ed è per questo che ha trattato tutto ciò con disprezzo. Non si tratta quindi solo di un incidente di
percorso dovuto alla cattiva gestione dell'amministrazione romana. Il vescovo di Roma è proprio
rimasto fedele alla sua linea generale.

Kurt Flasch,   filosofo e medievalista tedesco     in “Le Monde” del 22 febbraio 2009