«La paura è merce politica più si alimenta e più cresce il
bisogno di autorità»
Intervista a Nadia Urbinati di Bruno Gravagnuolo
C’è una differenza di fondo tra il Partito democratico Usa e il Pd italiano.
Oggi quello americano è una formidabile macchina organizzativa di elettori,
senza smagliature ideologiche e con una cultura laica e libertaria di fondo. In
più l’avversione ai repubblicani è radicale. Nel Pd italiano invece convivono
posizioni opposte sui diritti civili e sul dialogo politico, che possono farlo
implodere». Conversazione ad ampio raggio quella con Nadia Urbinati, cattedra di
«Political Theory» alla Columbia University di New York, studiosa di Hannah
Arendt e dell’Individualismo democratico (ultimo suo libro per Donzelli). Tesi
politica di Urbinati: il Pd deve coagularsi nella società civile, darsi un
riconoscibile linguaggio di sinistra, fondato sul nesso «diritti/emancipazione».
Altrimenti? Altrimenti in Italia passerà l’ondata emotiva di destra, che sta
sgretolando i fortilizi storici della sinistra. E in virtù di una manipolazione
«esistenziale e decisionista», che drammatizza i problemi «per risolverli in
chiave autoritaria e potestativa».
Ad esempio, spiega Urbinati, l’attacco alle donne su due fronti: quello quasi
quotidiano degli stupri e quello operato dal presidente del Consiglio che parla
delle donne nello stesso modo in cui parla degli immigrati. La retorica della
politica della sicurezza è come un double bind, dice: «da un lato si mandano i
militari nelle strade violando la Costituzione, perché non esiste veramente uno
stato di emergenza; dall’altro si fomenta il clima di paura non solo perché la
paura genera violenza ma anche perché si giustifica l’impossibilità di garantire
la sicurezza usando l’argomento dell’ineluttabilità della natura umana. Ci viene
detto cioè che l’uomo è cacciatore e violento per sua natura, come se questo
fosse una fatalità. E lo stupro è il riconoscimento della bellezza femminile.
Politica e linguaggio che sono una vergogna, una iattura per l’Italia». E non è
l’unica vergogna.
Professoressa Urbinati, per «The Economist» quello di Eluana è stato un dramma
nazionale che ha rivelato la stabile influenza della Chiesa e l’insofferenza del
Premier verso le regole del diritto. È stato questo il «film»?
«The Economist ha capito tutto, concordo totalmente. La situazione è grottesca.
Sappiamo benissimo che cos’è lo stato di diritto e ciò che avviene risponde a
una logica precisa e a due facce. Da un lato questo pontificato recupera un
ruolo teocratico di fondo, insofferente per il rispetto delle sfere autonome di
vita, per le scelte del singolo. Dall’altra parte l’esecutivo prevarica la
divisione dei poteri in chiave decisionista».
Eppure all’inizio la maggioranza degli italiani era favorevole alla battaglia
di Beppino Englaro...
«Sì, ma l’esecutivo rimescola e cavalca l’onda delle emozioni. E il paradosso è
che questa maggioranza politica, dai larghi numeri, invece di unire gli
italiani, stimola continue divisioni e lacera le coscienze. È un approccio
esistenziale ultimativo. Privo di mediazioni politiche. Come del resto accade
sul piano della sicurezza, giocata sul filo della paura. Il risultato non può
che essere l’appello all’autorità salvifica, come l’unica in grado di dirimere
conflitti insolubili in modo imperativo».
È una destra che vuole imporre al paese una sorta di bipolarismo etico? Una
destra da stato etico?
«Attenti a non nobilitarla troppo con queste definizioni. Non è nemmeno da
stato etico. La verità per ora è più semplice. Berlusconi vuol fare con lo stato
quello che ha fatto da imprenditore con le sue aziende. La sua è una scommessa
megalomane e narcisistica, per radicare il proprio potere personale e dispotico
nelle istituzioni. Forse è la Chiesa cattolica a coltivare l’ambizione di una
politica etica, usando l’occasione fornitale da Berlusconi».
Il tutto in un quadro di lacerazioni molteplici, segnato da intolleranze e
violenze di branco sul territorio. Da pendolare tra Usa e Italia, che percezione
antropologica ha del paese?
«Prima di arrivarci, vorrei tornare alle politiche della sicurezza, il che è
già un inizio di risposta. Anche qui c’è come un approccio imprenditoriale.
Lo stato incrementa l’ansia di sicurezza, per giustificare mezzi speciali,
magari simbolici, come l’uso dell’esercito in strada. E per stimolare la
richiesta di autorità. Un circolo vizioso. Quanto al paese reale, mi sembra
in preda a una doppia sindrome. Dove convivono fatalismo e angoscia. Per un
verso c’è un senso di impotenza e rassegnazione. E al contempo, un vissuto
incattivito e da ultima spiaggia. Il paese talvolta pare peggiore di Maroni...
Vive con diffidenza e preoccupazione gli stranieri, li teme, benché l’Italia
sia un paese di migranti e genti mescolate. E alla fine convive assuefatta con
le sue litigiosità e le sue emergenze. Spesso accollandole ai diversi».
In questo clima però si è cristallizato un blocco emotivo e sociale
conservatore che può scalzare del tutto la sinistra dalla società civile. È un
rischio reale?
«Altroché! E questo per me è un dramma dai tempi lunghi, almeno partire dal
1994. Occorrerebbe fare la storia della sinistra dal 1989 per capire come quel
blocco si è formato, e perché non lo si è contrastato con efficacia. La sinistra
nel suo insieme - parlamentare e no - ha perso il suo linguaggio specifico, e ha
mancato sul piano della leadership. In un sistema rappresentativo questo è un
punto essenziale. Senza leader rapppresentativi nei quali identificarsi sul
piano emotivo e ideale, c’è il vuoto».
La crisi di leadership non nasce anche dall’aver abbandonato interessi,
radicamento e memorie condivise legate all’emancipazione dei subalterni?
«Certo, è innegabile. Almeno da quando la sinistra ha smesso di coniugare
governo ed emancipazione sociale. Dopo aver aperto al privatismo nella scuola e
al precariato, da Prodi a D’Alema! Sul piano ideale chiusi i libri marxisti, non
se ne sono aperti degli altri, e non c’è più stata una seria riflessione
teorica. Per liberalismo si è inteso un semplice mercato regolato, e la
meritocrazia ha avuto la meglio sull’eguaglianza delle opportunità. Quanto alla
“cittadinanza”, la si è declinata in versione legalistica e astratta, senza
politiche e progetti sociali. Laddove al contrario, essa è strumento di
emancipazione universale, nonché potere democratico di controllo, oltre che
terreno inclusivo dell’ospitalità»
Mentre il Pd non sa dove sedersi a Strasburgo, l’americano «Newsweek» titola
in copertina: «siamo tutti socialisti». Che c’è di vero?
«È il grande dibattito Usa del momento. Al centro ci sono il ruolo dello stato
in economia, i piani di salvataggio per imporre regole alle banche. E gli
indirizzi produttivi. Socialismo equivale a spauracchio, ma allude a una
necessità di governo economico. Non si può rinunciare a un ruolo forte del
pubblico per rilanciare il meccanismo economico. Ecco la verità che si è fatta
strada».
Qual è il nocciolo sociale del consenso trainante di Obama, nel mondo
produttivo e dei lavori?
«Elettorato ampio, fatto di “professionals” - lavoratori delle professioni
libere - sottoclassi, emarginati e precari. E lavoratori dell’industria,
comunemente reputati in diminuzione e nondimeno oggetto dell’attenzione di Obama,
deciso ad aiutare l’industria automobilistica. La sensazione è quella di una
situazione gravissima, dove il mercato si è inceppato e si rivelato incapace di
funzionare. Ecco perché lo stato deve intervenire. E l’augurio è che intervenga
non solo per far ripartire l’economia, ma per distribuire opportunità e
ricchezza. Come ha promesso Obama».