«Crimine assai diffuso che va oltre il razzismo: è disprezzo del debole»
intervista a Gianrico Carofiglio, a cura di Marco Imarisio

«Non vedo un unico segno in questi episodi. Ma se esiste, è comunque diverso dal semplice
concetto di razzismo».

Anche il presente è una terra straniera. Gianrico Carofiglio, magistrato, scrittore, senatore del Pd,
cerca di capire cosa ribolle nelle viscere di una certa Italia, quella che per non annoiarsi, a Rimini
come a Nettuno, si accontenta di una tanica di benzina e di un poveraccio che dorme per strada.
«Avrebbero fatto qualcosa di simile se il clochard fosse stato italiano? Forse sì. E se per paradosso
fosse stata una persona curata, di bell'aspetto? Forse no. Ecco la controprova».

Di cosa si tratta, allora?
«Semplice disprezzo per la debolezza, ovviamente mischiato a una paurosa imbecillità. Il crimine
sta diventando sempre più spesso una bolla gorgogliante di stupidità che si trasforma in tragedia ».

E gli orientamenti politici, l'ideologia, non c'entrano?
«Non molto, a mio parere. In questi ultimi casi si tratta soltanto di un divertimento disgustoso, che
ha la stessa consistenza e logica degli atti di quelli che in passato seviziavano gli animali».

Solo che qui si tratta di esseri umani.
«Considerati però come un "non altro". Oggetti, bestie. Certamente la componente razzista funge da
acceleratore. Ma la questione è più complessa, e riguarda la caduta del senso di umanità».

Vale solo per questi delinquenti?
«Non credo. I loro crimini sono anche il sintomo di qualcosa che nella nostra società è più diffuso
di quanto sembri. Esiste. E ci fa paura. Saperlo vicino ci spaventa».

Attribuire tutto al razzismo è un modo per rimuovere?
«C'è anche questo aspetto psicologico. Fatte le debite proporzioni, è lo stesso atteggiamento tenuto
dalle madri degli aguzzini nazisti quando sostenevano che certe cose non potevano essere accadute.
Tutti siamo inclini ad allontanare da noi ciò che non ci piace, che ci provoca sgomento ».

La stupidità spaventa più del razzismo?
«È qualcosa che può appartenere a tutti. Il razzismo, no. E può così diventare una sorta di paravento
che finisce per nascondere realtà persino più semplici ma ugualmente terribili».

Da magistrato le è capitato di imbattersi in queste realtà?
«Molto spesso. I cosiddetti "futili motivi" sono molto più frequenti di quanto la gente possa
pensare. Spesso il crimine non è altro che il risultato della stupidità e dell'occasione nella quale si
trova ad agire».

Faccia un suo esempio.
«Episodio di alcuni anni fa. Tre balordi vanno in giro armati, di notte. Devono rispondere all'azione
di una banda rivale, che si è macchiata del furto di un motorino. Non trovano nessuno. Passano
davanti a una pizzeria. Vedono un ragazzo che non c'entra nulla con il conflitto criminale in corso,
ma aveva litigato con uno del gruppo. Lo ammazzano. Stupidità e occasione, come vede. L'idea di
una razionalità del crimine è spesso astratta».

Non le sembra di avere una visione riduttiva di questi fattacci?
«Tutt'altro. Sostenere che si tratti "solo" di razzismo è anche un modo per dire che noi non
c'entriamo. Non è così, invece. Qui c'è soprattutto la caduta della percezione dell'altro. Una perdita
di umanità della quale i delinquenti di Nettuno sono un sintomo forte, ma che, forse, non riguarda
soltanto loro».

Corriere della Sera    3  Febbraio 2009

 

 

L'Italia non c'è più. La violenza nasce dalla fine della società
intervista a Gian Enrico Rusconi, a cura di Bruno Gravagnuolo

«Paese sfaldato, che affonda da tempo. Ma dove a un certo punto tutte le patologie di sempre fanno
massa ed esplodono, magari con la violenza di branco».

Diagnosi cupa sull’Italia di oggi quella di Gian Enrico Rusconi, germanista, storico e politologo, da
sempre attento al fattore identitario. Da Berlino, dove è di casa e di studio, ci comunica intanto la
percezione «esterna» di un’Italia che implode. Priva di classe politica e in preda a una sorta di
ingovernabilità molecolare: dei sentimenti, del costume, delle relazioni sociali. Un male che
s’aggrava con la crisi economica globale e con i flussi migratori. Sotto la cui pressione rischiamo
per Rusconi di restare stritolati.
Professor Rusconi, dagli stupri di gruppo alle violenze sugli immigrati e alle rivolte dei
disperati, assistiamo in Italia a un imbarbarimento del costume e a un deficit capillare di
«autocontrollo» sociale. Tutto ciò che impressione le fa visto dalla Germania?
«In Germania rispetto all’Italia la situazione pare relativamente tranquilla. E c’è un’emergenza
italiana in questo momento. La parola chiave resta “imbarbarimento”, solo che non bisogna stupirsi
troppo. Certi fenomeni da noi sono antichi. E sarebbe ora di smetterla con la retorica di una società
civile buona, contrapposta alla politica o ad agenti alieni perversi. Si svela qui la profonda
corruzione della società civile e la caduta di ogni velo ipocrita: gli italiani non sono buoni e
generosi. Né sono meglio di altri popoli. Emergono etnocentrismo e xenofobia come altrove, ma
con l’aggravante di un ritardo maggiore su questi temi: istituzionale, culturale e politico. E il ritardo
è di tutti, da destra a sinistra. E anche la Chiesa non lo percepisce fino in fondo».

Spesso la Chiesa fa da argine contro il razzismo e la Lega...
«Spesso agisce da presidio. Ma dà l’impressione di non capire nel profondo certi sintomi, di non
raggiungere davvero le coscienze, malgrado la sua pretesa di incarnare l’etica pubblica. Il punto è la
reale incidenza antropologica della Chiesa. In un contesto degradato non solo dagli illegalismi
tollerati e diffusi, ma compromesso dalla volgarità del linguaggio, a cominciare da quello dei
media. Nonché dall’ottimismo di maniera legato al berlusconismo».

Lei mette l’accento sullo sfaldamento civile e sulla mancanza di Auctoritas condivisa?
«Sì, la nostra è una società decaduta e non esiste alcuna Auctoritas in grado di farvi fronte».
Eppure nel quadro di ottimismo ipocrita, si leva forte l’appello a legge e ordine e a esecutivi
decisionisti, o no?
«La disgregazione genera sempre il desiderio di capi carismatici, che è l’altra faccia
dell’insicurezza. Ma è un mulinare a vuoto, destinato a cadere nel nulla. Nel nulla della volgarità
imperante del linguaggio televisivo, o di quello politico, spesso da avanspettacolo
».

Nulla del linguaggio e linguaggio del nulla. Sa che i ragazzi di Nettuno hanno detto di aver
bruciato l’indiano per gioco e non per razzismo?
«Patologia ben nota, da nichilismo di periferia, senza dover risalire a esempi culturali più illustri.
Ovvio che il nulla venga riempito con gesti gratuiti e distruttivi, per dotarsi di un’esistenza. È il
trionfo dell’“anomia”, che in sociologia da Durckheim in poi significa atrofia dei legami e
dissoluzione dell’individuo. Con contraccolpi reattivi di violenza gratuita, magari sul più debole.
Ma tutto questo è il disvelamento di qualcosa di antico che adesso esplode. È l’espressione di un
disfacimento da paese declassato, senza politiche e senza grande politica».

Giuseppe de Rita parla dell’ascesa del branco come unità identitaria per spiegare la violenza.
Categoria troppo «micro»?
«De Rita ha fiuto, e il branco allude anche a qualcosa di più generale: lobby, corporazioni, comitati
d’affari, etnie. Alla fine torniamo sempre lì. Alla società civile italiana liquefatta e inselvatichita.
Non esiste, e da tempo, alcuna forza morale capace di tenere insieme un paese che non c’è più».

Gioca un ruolo la nascita di partiti gassosi, trasversali e privi di nuclei emotivi e simbolici
condivisi?
«Certo che sì, ma si tratta di una causa o di un sintomo?»
Un circolo vizioso?
«Appunto».

l'Unità     3 febbraio 2009

 

 

I CATTIVI MODELLI


Per fortuna, neanche stavolta c'entra il razzismo. Un poliziotto ammazza a fucilate il vicino senegalese a Civitavecchia: è una banale lite di condominio. Tre ragazzi bruciano vivo un senza casa indiano a Nettuno: è una ragazzata, magari quasi omicida, ma si sa, i ragazzi si annoiano e tutti siamo in cerca di emozioni. E davvero, sono quasi tentato di crederci: il razzismo c'entra, ma non è un ingrediente isolabile, un'ideologia motivante; è piuttosto una componente ormai intrinseca e indistinguibile di un senso comune di violenza e sopraffazione che se non è diventato egemonico, poco ci manca.
Coltellate, fucilate, violenze sessuali fanno tutte parte di un'unica grammatica dell'annientamento e dell'umiliazione dell'altro (anche la violenza sessuale è una forma di assassinio, in cui nonostante le strizzate d'occhio del nostro presidente del consiglio il desiderio sessuale non c'entra per niente). E questo senso comune è condiviso tanto dai cinque romeni stupratori di Guidonia o dai tre marocchini che avrebbero violentato una donna (romena) a Vittoria in Sicilia, quanto dall'italiano stupratore di una cilena, dai ragazzetti di Campo de' Fiori accoltellatori di un americano, dal bravo ragazzo violentatore di Capodanno a Roma. E da tanti episodi meno sanguinosi ma diffusi nelle famiglie, nelle strade, negli stadi, nelle scuole, nelle caserme...
La sola differenza - e qui il razzismo c'entra espressamente - è la strategia di depistaggio messa in modo da politici e media. Quando, sempre a Guidonia, nel 2006, fu una donna romena a essere violentata per ore da un italiano la notizia non riempì le prime pagine ma si esaurì in due righe in fondo a un comunicato Ansa e a un trafiletto del Corriere della Sera. Non ci furono ronde di patrioti indignati nei bar e nelle carceri, circondate da simpatia e complicità della brava gente circostante. Perciò far credere che la violenza sia un portato dell'immigrazione, è un modo per parlare d'altri e non di noi - a cominciare dall'altra cosa che tutti questi episodi hanno in comune: il genere maschile degli aggressori e la debolezza delle vittime.
Molti anni fa, il sociologo David Riesman diceva che nella società di massa la fiaba di Pollicino ammazza-giganti si sarebbe trasformata nella fiaba di Pollicino ammazza-nani. Infatti adesso siamo tutti dalla parte di Golia: anche le guerre, dall'Iraq a Gaza, esibiscono e addirittura vantano la sproporzione tra i deboli e i forti.
Essere o sembrare deboli, nella modernità della competizione, della deregolazione, dell'individualismo e del mercato elevati a religione, è una colpa in sé. È una colpa essere donna, è una colpa essere senza casa, è una colpa essere nero. E forse la colpa peggiore di tutte queste minacciose debolezze sta nel fatto che mettono a nudo la debolezza profonda dei «forti», la precarietà del loro diritto, la tranquillità del loro dominio. I potenti non riescono a vincere davvero le guerre, i violenti non fanno che mettere in scena la loro paura, i razzisti non riescono a sentirsi superiori alle loro vittime, la finanza globale va in rovina e porta rovina con sé. La rabbia frustrata di chi si crede forte e si accorge di non esserlo più produce violenza.
Fermarla, o almeno porvi un limite, è un lavoro di profondità e di lungo periodo, una costruzione di socialità nuova, di rapporti civili fa le persone, di politica coraggiosa e anticonformista. Altro che «essere cattivi» con i «clandestini» - cioè, essere come quelli che li bruciano vivi - come vaneggia nella sua frustrazione il povero Maroni. Non la fermeranno certo i poliziotti per le strade, i vigili urbani con la pistola e la licenza di sparare: anzi, saranno un'ulteriore modello di ruolo per i futuri aggressori, un'altra esibizione di forza impotente, e un altro esempio di quella politica bipartitica - quella sì, «cattiva» politica - che alimenta queste paure e se ne nutre.

Alessandro Portelli    Il manifesto 3/2/2009