«Figlia mia
ricorda: non esistono razze»
Avevo sei anni quando ho sentito per la prima volta la parola
razza. Mio padre, ventenne, mi teneva
per mano mentre saltavamo di pietra in pietra lungo un fiume giapponese.
«Ricordati che le razze
non esistono — mi disse con voce decisa —. Si può parlare solo di popoli e di
culture diverse, non
di razze».
Allora, negli anni 40, non era una cosa scontata. L'Europa intera era invasa da
ideologie razziste.
Non credere alle divisioni dovute al colore della pelle, alla forma del naso o
dei capelli era cosa che
pochi osavano affermare. Mio padre era antropologo e non poteva pensare
altrimenti, ma pure
andava contro corrente e ne era consapevole. E' stato il suo rifiuto del
razzismo che l'ha allontanato
dal fascismo e dall'Italia. E' stata la profonda antipatia del principio di
superiorità di un popolo sugli
altri che ha spinto lui e mia madre a preferire il campo di concentramento
piuttosto che firmare
l'adesione alla Repubblica di Salò.
Poi la guerra è finita, molti hanno capito quanti guai e catastrofi abbia
portato il razzismo.
Sembrava che la grande maggioranza degli europei fosse stata vaccinata contro la
malattia. E invece
eccoci qui, di nuovo con le teorie della diversità, che regolarmente si
accompagnano al concetto di
superiorità di una cultura, di una religione, di una nazionalità sulle altre.
Idee che affascinano
soprattutto i giovani, sedotti da intolleranze che a loro appaiono nuove e alla
moda, mentre sono
antichissime e prevedibili.
La pratica della cancellazione della memoria naturalmente peggiora le
cose. Senza memoria, come
dice Bergson, non c'è coscienza. Ma la cultura del mercato diffida della memoria
e quindi fa di tutto
per offuscarla. Anche le affascinanti prospettive di una revisione storica che
azzera le responsabilità
delle scelte storiche, non aiutano certo a capire.
Come dice con saggezza popolare Sancho Panza: «Nel mondo ci sono solo due razze,
quella di chi
ha e quella di chi non ha». Sono sempre quelli che hanno (potere, soldi,
proprietà, cittadinanza,
diritti, voce in capitolo) a stabilire cosa debbano fare e dire quelli che non
hanno. I quali, quasi
sempre, per potere lavorare, per avere una casa, e vivere in pace, si adeguano.
Salvo poi, alla goccia
fatidica prendersela col più debole, magari la moglie, i figli.
Eppure l'Europa conosce bene i patimenti dell'emigrazione. Ma pare che mentre
siamo stati
bravissimi nello sviluppare una cultura dell'emigrazione, non abbiamo finora
saputo creare una
cultura dell'immigrazione, dell'accoglienza, del buon esempio e delle regole.
Fra l'altro tutti ammirano gli Stati Uniti per la loro energia e la loro
potenza, e non tengono conto
che sono il Paese al mondo che più ha saputo accogliere e fare sue culture anche
lontane, con le loro
religioni, le loro abitudini sociali, le loro filosofie, le loro tradizioni. Ed
è stata proprio la capacità di
trasformare tanti stranieri in ferventi americani che fa la forza del Paese più
potente del mondo.
«Io non chiedo a che razza appartiene un uomo, basta che sia un essere umano,
nessuno può essere
qualcosa di peggio», scrive Mark Twain.
Dacia Maraini Corriere
della Sera 7 ottobre 2008