«Chi esalta l’oblio uccide due volte»
Gli nterventi di
Elie Wiesel. Giorgio Bocca, Predrag Matvejevic
Lo scrittore e
premio Nobel per la Pace:
«Bisogna ribellarsi ieri come oggi a chi vuole
cancellare la distizione tra vittime e carnefici»
Hanno vissuto pagine incancellabili della Storia. Sono stati testimoni diretti
di momenti che hanno segnato i nostri tempi. L'Olocausto. La Resistenza
antifascista. La tragedia dei Balcani. Sulla loro esperienza personale, su un
vissuto indimenticabile, hanno costruito una elaborazione intellettuale segnata
da una straordinaria passione civile. Elie Wiesel, scrittore, premio Nobel per
la Pace, sopravvissuto ai lager nazisti, Predrag Matvejevic, saggista, docente
universitario che ha cercato di costruire «ponti» di dialogo nell'inferno
balcanico; Giorgio Bocca, maestro di giornalismo, autore di numerosi libri sulla
stagione della Resistenza, vissuta in prima persona, e del ventennio fascista.
Il loro impegno per mantenere in vita una memoria storica che altri vorrebbero
cancellare, non è mai venuto meno. Il loro è un lascito prezioso per le giovani
generazioni.
Elie Wiesel:
«A chi vuole archiviare il
passato dico: solo con il ricordo ci può essere vera riconciliazione»
«Dimenticare le vittime significa null’altro che infliggere loro una seconda
morte. Una vera riconciliazione, inoltre, non può avvenire che a partire dal
ricordo, preservando la memoria di ciò che furono quegli anni. È vero: oggi c’è
chi esalta l’oblio, chi ritiene giunto il momento di archiviare il passato. A
questa operazione sento il dovere morale di ribellarmi, ieri come oggi: perché
per nessuna ragione al mondo è possibile cancellare la distinzione tra il
carnefice e la sua vittima. L’Olocausto è stato il Male assoluto. Ecco cosa è
stato. Ciò che ha caratterizzato quel periodo fu una determinazione assoluta nel
pianificare e condurre a compimento l’annientamento di un popolo. Questo è stato
l’Olocausto, in questo consiste la sua novità rispetto al passato: per la prima
volta nella storia, si intendeva eliminare completamente dalla faccia della
terra un popolo. Gli ebrei non furono perseguitati e sterminati per motivi
specifici, perché credevano o non credevano in Dio, perché erano ricchi o
poveri, o perché professavano ideologie nemiche: no, gli ebrei venivano uccisi,
umiliati, torturati per il semplice fatto di essere tali. Perché erano colpevoli
di esistere: questo è l’orrore incancellabile della Shoah. Ed ancor oggi
l’Olocausto insegna che quando una comunità viene perseguitata tutto il mondo ne
risulta colpito. Queste considerazioni ci portano al tema dell’identità ebraica,
della sua specificità che non va smarrita ma che non deve mai essere vissuta
come “separazione” dal mondo dei “Gentili”. In uno dei miei libri, “L’oblio”, (Bompiani),
il protagonista sintetizza così il suo essere ebreo: “Se sono ebreo, sono un
uomo. Se non lo sono, non sono nulla. Solo così potrò amare il mio popolo senza
odiare gli altri”. Questo mi ripetevo allora, nei giorni di Buchenwald, quando i
nostri aguzzini volevano cancellare la nostra identità, prima di negarci la
vita, per ridurci solo a numeri, quelli marchiati a fuoco sulle nostre braccia.
Ma non ci sono riusciti: hanno ucciso sei milioni di ebrei ma non sono riusciti
a cancellare la nostra identità. Ed è per questo che oggi, posso dire con il mio
Malkiel (il protagonista dell’Oblio, ndr.): è proprio perché amo il popolo
ebraico che trovo in me la forza per amare quelli che seguono altre tradizioni.
Un ebreo che nega se stesso non fa che scegliere la menzogna. Molte volte mi è
stato chiesto, mi sono chiesto, se per chi come me ha vissuto l’esperienza dei
lager nazisti, abbia un senso la parola perdono. Questa domanda ha accompagnato
la mia esistenza di sopravvissuto. Ma parole come perdono o misericordia non
trovano posto nell’inferno di Auschwitz, di Buchenwald, di Dachau, di Treblinka....
No, non è possibile perdonare gli aguzzini di un tempo e coloro che ancora oggi
ne esaltano le gesta. In questi sessantaquattro anni, ho pregato più volte Dio e
la preghiera è la stessa che recitavo quando ero rinchiuso nel lager: “Dio di
misericordia, non avere misericordia per gli assassini di bambini ebrei, non
avere misericordia per coloro che hanno creato Auschwitz, e Buchenwald, e Dachau,
e Treblinka, e Bergen-Belsen. Non perdonare coloro che qui hanno assassinato. Ma
questo non vuol dire condannare per sempre il popolo tedesco, perché noi ebrei,
le vittime, non crediamo nella colpa collettiva. Solo il colpevole è colpevole».
Giorgio Bocca:
«L’Italia
disorientata da un relativismo ingannevole che il neofascismo di oggi non ha mai
evitato»
«La memoria, per dire la storia, è il fondamento di ogni civiltà. Un popolo, una
nazione senza storia, sono semplicemente impensabili, non esistono. E una delle
ragioni dell’attuale disorientamento dell’Italia contemporanea è proprio la
labilità della memoria. L’incertezza, la confusione, il pressappochismo nel
ricordare la nostra storia recente, nell’affidarla a un relativismo ingannevole.
Si succedono, da parte dei neofascisti riportati al potere dal berlusconismo, le
rivendicazioni di una doppia storia, la storia della Repubblica di Salò e del
fascismo superstite da opporre a quella dell’antifascismo e della guerra di
liberazione partigiana. Fingendo che abbiano avuto lo stesso peso, la stessa
legittimità, la stessa giustificazione, fingendo che un tetro crepuscolo sia la
stessa cosa di un’alba di vita e di speranza, che la disperazione della
sconfitta sia la stessa cosa di una vittoria. Il ministro della Difesa La Russa,
per esempio, ha dichiarato che i combattenti di Salò meritano rispetto e
riconoscenza perchè “anche loro pensavano di combattere per difendere la
patria”.
Ma scambiare un gesto simbolico, un episodio insignificante nella grande storia
della liberazione dell’Europa dal dominio nazista per un’altra faccia della
storia è un inganno, una tentazione che il neofascismo non ha mai evitato. Lo
stesso che raccontare la battaglia di El Alamein non come la sconfitta
definitiva e inevitabile dell’imperialismo nazista, ma come una delle possibili
alternative: “se avessimo vinto a El Alamein, tutto sarebbe ancora stato
possibile”. Ma la storia seria, documentata, vera, è diversa: El Alamein non fu
un gioco della fortuna ma una verifica della superiorità schiacciante della
ottava armata inglese.
Dire come La Russa che le due compagnie della X Mas che per pochi giorni
combatterono alla testa di ponte di Anzio contro un’armata alleata che disponeva
di migliaia di navi e di un dominio totale del cielo, subito rimandate nelle
retrovie dal comando tedesco come elemento di disturbo, è capovolgere la storia.
Non si scrive la storia falsandola. È un falso quello compiuto da un compagno di
strada del neofascismo, il sostenere che il contributo alla guerra contro gli
alleati al fianco dei nazisti fu un fatto storico rilevante, la prova che una
parte degli italiani era rimasta dalla parte di Mussolini, pronta a combattere
coi nazisti: prova ne sia che le forze armate di Salò contarono mezzo milione di
soldati. Questo è falsare la storia, non riscriverla, perché tutti sanno che i
cinquecentomila e più richiamati alle armi dalla Repubblica sociale, in parte
mandati a istruirsi in Germania, abbandonarono i reparti appena rientrati in
Italia, oppure rimasero di presidio sulle Alpi occidentali, fuori dalla avanzata
alleata, contro il parere di Hitler che mai approvò il loro riarmo, senza
accontentare il dittatore fascista che “chiedeva la sua Valmy”, la sua vittoria.
La memoria è importante, decisiva nella cultura di una nazione. E può essere
anche una memoria critica, da rivedere, ma deve essere una cosa seria, che
lascia il segno, che conta nella vita dei cittadini».
Predrag Matvejevic:
«Non dobbiamo
dimenticare, serve il coraggio di guardarsi allo specchio e dire: non succederà
più»
«La memoria ci definisce, determina i nostri atti, condiziona le nostre scelte,
dirige i nostri movimenti. Ma non c’è una sola memoria. Ne esistono diverse.
Talvolta la memoria è uno stimolo, talvolta è un obbligo, altre volte un peso.
Occorre sempre chiedersi a quale memoria pensiamo. Non vogliamo, non dobbiamo
dimenticare gli eventi del nostro passato, della nostra vita, della storia del
popolo del quale abbiamo fatto parte. Per quanto mi riguarda, non dimentico mai,
nel mio impegno politico e intellettuale, che mio padre è stato deportato per
quattro anni in un lager nazista. Era un uomo alto, forte, pesava 92 chili.
Quando è tornato era l’ombra di se stesso, uno scheletro vivente, pesava 52
chili. Non lo riconobbi. Piansi per tre giorni. Un popolo, una nazione, un
partito politico, devono avere una memoria. Ma viene anche il momento in cui
occorre difendersi da questa stessa memoria quando essa diviene invadente. Un
popolo, una nazione si definiscono come un patrimonio, talvolta, però, è
necessario rifiutare una parte di questo “patrimonio” che ci castiga, che
diventa negativo. Solo una forte cultura critica potrà riconoscere questo
momento cruciale, nel quale invece di difendere la memoria dobbiamo difenderci
dalla memoria, invece di proteggere il patrimonio bisogna proteggere noi stessi
da questo stesso patrimonio. Vi sono epoche in cui la cultura critica non
fiorisce o viene decisamente osteggiata, svilita, repressa. Ogni scrittore, ogni
intellettuale dovrebbe redigere un “catechismo” del proprio dissenso. Perché nel
momento in cui rifiutiamo quello che attorno a noi è considerato una cosa sacra,
un tabù inviolabile, un qualcosa di indiscutibile, noi rischiamo di essere
trattati da traditori. Traditori del patrimonio, della tradizione. E non si
rendono conto che conservare ad ogni costo certi patrimoni, ci fa precipitare
nel baratro di un conservatorismo esiziale. Voler difendere sempre e comunque la
tradizione, ci spinge verso un tradizionalismo che blocca l’evoluzione
individuale e collettiva. Una cultura critica è quella che sa anche rischiare,
impegnandosi. Occorre - e penso a questo ricordando la tragedia dei Balcani -
sapersi guardare allo specchio. Sapendo che non basta appartenere ad una civiltà
erudita per essere immuni da virus come l’odio razziale, l’antisemitismo, da una
visione di sé come razza superiore. La storia della Germania e del nazismo ne è
una tragica esplicitazione. Una cultura critica è quella che si batte perché la
cultura nazionale non si trasformi nell’ideologia della nazione, come avvenne
nella Germania nazista o, per altri versi, nella Russia stalinista. Molte volte
non si ha il coraggio di guardarsi allo specchio. Lo vedo attorno a me, nella
Croazia in cui sono tornato a vivere. Vedo tanti che non hanno il coraggio di
dire in modo forte cosa furono gli ustascia di Ante Pavelic, criminali fascisti
addestrati dai fascisti italiani di Benito Mussolini. Penso alla Serbia. Con
pochi amici serbi posso ancor oggi parlare del genocidio di Srebrenica: oltre
8mila civili, donne, bambini, anziani, massacrati in due giorni. Una nazione
dovrebbe invece essere molto riconoscente verso coloro che hanno il coraggio di
mettere la propria faccia di fronte allo specchio, e dire: ecco, siamo stati
capaci di fare questo ma non lo faremo più».
Umberto De Giovannangeli l’Unità 14.9.08