«Pasolini,
missionario senza chiesa»
La rivista «l'immaginazione» dell'editore Manni pubblicherà tra
qualche giorno una lunga
testimonianza di padre David Maria Turoldo su Pasolini: è uno scritto inedito
nella sua integrità. Le
cose sono andate così. Il 16 agosto del 1987 Stefano Bottarelli sale all'Abbazia
di Sant'Egidio per
intervistare Turoldo, che trasforma il previsto colloquio in un lungo monologo.
Bottarelli lo registra,
lo trascrive e invia il dattiloscritto al padre, che lo rilegge, corregge e
firma. Il testo che oggi
leggiamo indugia all'inizio sulla «grande amicizia» e sulla «reciproca stima»
dei due poeti friulani.
Ma presto Turoldo punta il discorso sull'«indole » dell'amico: «È vero che
lui si dice ateo,
agnostico; è però anche vero che era un missionario, che il suo io è un io
totalizzante,
coinvolgente... La sua letteratura è la sua vita, e la sua stessa vita un evento
letterario. L'io è al
centro di tutta la sua storia, di tutto il suo universo: perciò è sempre
travolto. Non c'è distinzione tra
la sua avventura e se stesso: lui è la sua parola, il suo scritto, il suo
annuncio».
Per Turoldo una chiave per rileggere Pasolini è quella religiosa. «Era un
missionario, si sentiva in
missione: aveva un compito, quello di denunciare il male. Ha sempre sognato la
liberazione dal
peccato, e non poteva che essere peccatore, e grande peccatore. Il senso
del "male" in lui è tragico.
Ha sempre sognato una chiesa che lo salvasse, pur avendo rinunciato a qualsiasi
chiesa», anche a
quella «marxista» se, nel Le ceneri di Gramsci, dà il suo «addio» ai «compagni,
non più
compagni». Pasolini «è un arrabbiato perché non può trovare un'autentica
chiesa; è un arrabbiato,
perciò senza un vero partito. Arrabbiato perché non trova il paese che sogna...
E soprattutto
arrabbiato con se stesso perché sa di essere lui un essere sbagliato».
Turoldo crede «che questo sia un buon nucleo da cui partire per dare più
profonde interpretazioni»
di Pasolini, «anima inquieta perché non trova assolutamente il punto folgorante
e persuasivo di tutte
le cose che cerca»: «Era addirittura l'immagine dell'inquietudine
universale: sempre travolto dalla
sua carica moralistica. Si dica quello che si vuole, forse, pur nel suo peccare
quotidiano, era uno dei
più innocenti... Nessuno ha sofferto più di lui la sua condizione, e nessuno ha
pagato come lui per
essere tale ».
Interessante è nella testimonianza di padre Turoldo il confronto tra Pasolini e
Montale: «Montale è
l'anti-Pasolini per eccellenza, come Pasolini è l'anti-Montale per eccellenza.
Io però preferisco un
Pasolini a un Montale, nonostante quel che si va celebrando, in consumi di
incensi a non finire. Uno
è l'indifferenza assoluta e l'altro è il coinvolgimento e la passionalità
assoluti». Sono due mondi
contrapposti che danno «due possibili letture della cultura italiana». Ma è
soprattutto sul rapporto
tra cultura e politica che insiste Turoldo, con vena polemica e sferzate non
conformiste. «Sul mondo
politico italiano, bisognerebbe leggere i suoi articoli apparsi sul Corriere
della Sera, dove cercava
di portare avanti addirittura un'istruttoria per un processo alla Democrazia
Cristiana
interessantissimo».
Gli strali vanno anche al trasformismo di tanti intellettuali, da cui Pasolini
si è distinto o si sarebbe
distinto. «La crisi dell'invasione sovietica dell'Ungheria è stata sconvolgente,
una specie di
terremoto delle coscienze. E però è stata anche rivelatrice di tutta una
situazione ormai in declino e
non solo in confronto con il mondo del comunismo reale... Le delusioni che si
possono avere nei
confronti dei paesi dell'Est, oggi si possono avere anche per i paesi
dell'Ovest. La sconvolgenza
dell'invasione dell'Ungheria e della Cecoslovacchia può essere pari alla gravità
della situazione del
Salvador, del Nicaragua, del Guatemala, della Bolivia, del Cile... Ma
allora le coscienze erano
ancora in grado di meravigliarsi, di scuotersi; ora invece non si "meravigliano"
più di nulla. Voglio
dire: mentre condivido la rivolta degli intellettuali nei confronti
dell'Ungheria, non condivido
certamente l'acquiescenza degli intellettuali, degli stessi intellettuali — cosa
che non avrebbe mai
fatto Pasolini — di fronte all'identica situazione di martirio e di olocausto
delle genti dell'Ovest:
appunto del Guatemala... Fino a che punto fosse autentica quella rivolta degli
intellettuali di fronte
all'Ungheria, possiamo ora giudicarlo... Pasolini rimane comunista, rimane
un compagno, crede
ancora in quella direzione, ha una visione molto più realistica e libera di
tutti gli altri intellettuali.
Pasolini non si sarebbe mai venduto a questi schieramenti politici nati dopo,
che sono di una povertà, di uno squallore e di un pragmatismo unico.
È vero che sentiva anche lui il franare delle
ideologie, ma non sarebbe mai finito nel pragmatismo».
Giorgio De Rienzo Corriere della
Sera 12 settembre 2008