«La Chiesa odia il
moderno, la Chiesa salverà il moderno»
intervista a Daniele Menozzi a cura di Tonino Bucci
Esiste ancora la modernità? Se lo chiedono filosofi, sociologi, storici ma cavar
fuori una definizione
univoca di cosa s'intenda oggi con questo termine proprio è impossibile. Nessuno
saprebbe dire se
abbia ancora un seguito il progetto della modernità, di quell'idea di
emancipazione universale del
genere umano che dall'Illuminismo è approdato, nel corso del tempo, alle
rivoluzioni borghesi e al
marxismo da ultimo. Ne è la prova persino un imbarazzo linguistico a utilizzare
la parola
"modernità", sostituita sempre più spesso da termini che alludono a una
discontinuità vaga,
impalpabile, del tipo "postmoderno" o modernità "liquida" o "ultramodernità".
Non è un caso che alla crisi delle definizioni classiche della modernità oggi
faccia da contraltare un
diverso recupero del moderno da parte della religione. Oggi l'umanità pensa al
proprio tempo in
termini pessimistici. E a questa crisi la Chiesa offre la sua terapia a base
d'assoluto. Si ripropone
come unica autorità morale in grado di salvare l'uomo dalla catastrofe. Di
questo ritorno del
religioso nel moderno se ne parla sempre più spesso, come se l'importanza delle
istituzioni che
detengono il monopolio del sacro fosse destinata a crescere all'interno dello
spazio pubblico. Se ne
occupa l'opera monumentale scritta da studiosi di diversa provenienza culturale
e geografica sotto il
titolo Le religioni e il mondo moderno di cui è appena uscito il primo dei
quattro volumi previsti,
dedicato al Cristianesimo (pp. 644, euro 85) e curato da Daniele Menozzi,
docente di storia della
Chiesa. A lui chiediamo di introdurci nel tema e tracciare un bilancio di quello
che è stato il
rapporto delle varie chiese cristiane con il moderno. La modernità è stata
oggetto di rifiuto, di
negazione, di recuperi parziali, di adattamenti: insomma una strategia che si
variamente articolata
nel corso degli ultimi secoli. La Chiesa del Concilio Vaticano II, per
intendersi, non è la stessa
istituzione dei tempi di Pio IX. Le separano due atteggiamenti antitetici nei
confronti della
modernità, di massima apertura nel caso della prima, di contrapposizione totale
nel caso della
seconda.
Modernità ha significato la progressiva dilatazione degli spazi di libertà e
autonomia dell'individuo.
L'accostamento della Chiesa al principio dell'autodeterminazione è giunto a un
punto di quiete oppure è un
processo destinato a rimanere conflittuale? E' fallito il lento recupero della
modernità messo in atto in due secoli
di storia pontificia?
L'atteggiamento della Chiesa verso il moderno è complesso. Sullo sfondo vanno
tenute presenti
anche le posizioni prese dalle altre confessioni cristiane nei confronti della
modernità, cioè dal
protestantesimo e dall'ortodossia. Per quanto riguarda il cattolicesimo il
volume cerca di uscire da
luoghi comuni, ad esempio quello per cui ci sarebbe stato uno scontro continuo
tra la Chiesa e il
moderno così da prefigurare due elementi fra loro contraddittori. Ma rifiuta
anche lo stereotipo
opposto per cui il moderno sarebbe inconcepibile senza l'apporto dato dalla
Chiesa. Il volume
ricostruisce come nella storia questo rapporto abbia avuto tante sfaccettature
concrete. Sicuramente
c'è stata, all'inizio, una fase di contrapposizione. Nel Sillabo è scritto in
maniera inequivocabile che
la Chiesa non ha nulla a che fare con la modernità. C'è stato, certo, un
atteggiamento di scontro
totale e inconciliabile. Ma c'è stata anche un'altra modalità, un tentativo di
modernizzazione, di
incamerare alcuni principi del mondo moderno ritenuti leciti. Da questi due tipi
di rapporto, l'uno di
scontro, l'altro di acquisizione, la Chiesa ne è uscita cambiata, così come ne è
uscito cambiato il
moderno. Il volume si preoccupa di ricostruire questa costellazione piuttosto
complicata di rapporti,
a "doppia variabile" potremmo dire. Resta il fatto che una percezione del
moderno - anche se non è
la sola - è stata quella dell'autonomia dell'individuo, dell'autodeterminazione
del soggetto. Di questa
concezione della modernità la Chiesa ha recepito qualche cosa. Basta pensare a
tutto il discorso sui
diritti civili. La Chiesa del Sillabo pensava che la convivenza umana dovesse
essere ordinata
secondo i diritti di Dio e non secondo i diritti dell'uomo. La Chiesa del
Vaticano II, invece, afferma
nella Gaudium et spes che l'autorità ecclesiastica è legittimata a intervenire
in politica laddove si
tratta di tutelare i diritti dell'uomo. Un cambiamento notevole. Resta però il
fatto che la Chiesa ha
accettato di fare propria la tutela di alcune libertà ma non la completa
autodeterminazione del
soggetto. Ha acquisito alcuni diritti - il caso più sintomatico è il diritto
alla libertà religiosa - ma non
tutti i diritti. Non tutti quelli, ad esempio, che figurano nella Dichiarazione
universale delle Nazioni
Unite del 1948. C'è stato un processo di avvicinamento, per certi versi di
inglobamento, ma non di
completa sovrapposizione tra la Chiesa e la modernità. Da questo punto di vista
il processo è ben
lungi dall'essere concluso. E questo vale da entrambe le parti, sia per quello
che è l'atteggiamento
della Chiesa verso il moderno, sia per ciò che il moderno può recepire dalla
Chiesa.
Oggi c'è il dubbio che la modernità con la quale la Chiesa si è misurata per
due secoli non sia più la stessa. E'
difficile pensare al nostro tempo in maniera ottimistica come a un progresso
senza fine. L'uomo contemporaneo
pensa al proprio tempo come a un tempo di crisi, di solitudine e di
disgregazione dei legami collettivi. Come
risponde la Chiesa a questa svolta epocale? Come si riposiziona?
Il contenuto semantico del termine modernità è cambiato. Il volume ne prende
atto. Cambia
l'autorappresentazione che il moderno dà di sé e cambia anche l'atteggiamento
della Chiesa nei suoi
confronti. Oggi la percezione della modernità non è esattamente la stessa che si
poteva avere alla
fine dell'800 e all'inizio del '900, quella di un processo ininterrotto verso le
magnifiche sorti e
progressive di un'umanità lanciata verso il progresso. Oggi la modernità viene
guardata con qualche
diffidenza, basta pensare alle catastrofi belliche legate alla costruzione di
moderni mezzi di
distruzione. L'atteggiamento della Chiesa è articolato: rifiuta alcuni aspetti
della modernità, ma
nello stesso tempo la volontà di modernizzazione l'ha spinta a discernere tra
ciò che del moderno è
buono e positivo e va recepito e ciò che, invece, è cattivo e va respinto. Oggi,
con il moderno in
crisi, ha buon gioco a riproporsi come la sede del discernimento tra bene e
male. Non perché sia
interessata a valutare ciò che il moderno ha effettivamente portato. Piuttosto
la Chiesa opera quel
giudizio di discernimento a partire dai propri valori. Parte dalla propria
convinzione di essere sede
di una verità universale e utile per tutti gli uomini. Perciò il confronto è
destinato a riproporsi.
I tempi del Concilio Vaticano II sono passati. Oggi della modernità la Chiesa
non riesce proprio più ad accettare
il principio della laicità e della separazione tra Stato e religione. Cosa è
cambiato nella sua percezione del
moderno?
Nella Chiesa c'è la convinzione che, se lasciato a se stesso, questo cammino
dell'uomo moderno
verso la libertà non può che portare a una catastrofe. La Chiesa ritiene d'avere
in mano quelle chiavi
per determinare i confini di una giusta, legittima, corretta autonomia
dell'uomo, e non di una
completa, totale autodeterminazione dell'uomo. Ha buon gioco nel rivendicare
questo ruolo quando
la modernità si presenta con effetti davvero problematici e rende incerti i
confini dell'umano. Basta
pensare al rapporto con la scienza in merito al quale la Chiesa rivendica
l'assolutezza del proprio
giudizio e sfrutta le sue carte per raccogliere consenso. Non è entrata dentro
il moderno per cercare
di capirne le ragioni profonde, le aspirazioni, i percorsi - e questo emerge nei
contributi del volume.
Fa un discorso autoreferenziale più che di comprensione effettiva della
modernità.
Wojtyla ha tentato di ricondurre i principi della modernità nell'alveo del
Cristianesimo. Se la democrazia e i
diritti umani altro non sono che uno sviluppo del cristianesimo allora la Chiesa
sarebbe legittimata a fare da
guida morale nel mondo moderno, e a garantire la corretta applicazione di quei
principi. In questo non c'è una
sostanziale continuità tra Wojtyla e Benedetto XVI?
Elementi di continuità ci sono, su questo come su tanti altri aspetti. Ratzinger
è stato tra i principali
collaboratori di Giovanni Paolo II. Ne ha condiviso gli orientamenti e le
scelte. Il quadro
complessivo è il medesimo: un'operazione fondamentalmente apologetica. Elementi
effettivi di
apertura al moderno, sia pure circoscritti e limitati, convivono con la
rivendicazione di una verità
assoluta. La Chiesa sarebbe stata all'origine di tutto ciò che di buono il
moderno ha portato. Mi pare
però anche che gli accenti fra i due pontefici siano un po' diversi. Giovanni
Paolo II metteva
l'accento più sulla necessità di mostrare le aperture della Chiesa al moderno,
alla sua capacità di
modernizzazione. Esprimeva una volontà recettiva, una certa ansia pastorale e di
apostolato che
avrebbero potuto far tornare gli uomini contemporanei alla Chiesa. In Benedetto
XVI il quadro
concettuale è lo stesso, ma i termini sono più rigidi. L'insistenza più che
sulla capacità della Chiesa
di recepire, è piuttosto sulla scelta. Se non si ritorna alla Chiesa, allora la
modernità si manifesterà
in tutta la drammaticità dei suoi risultati negativi. In Benedetto XVI questo
aspetto è molto più
accentuato. Rappresenta una Chiesa che ha acquisito delle certezze e le propone
in termini molto
più drastici e ultimativi. La Chiesa di Giovanni Paolo II voleva dare risposte
agli uomini inquieti,
perplessi e smarriti. Tutto questo in Benedetto XVI ha toni più drammatici: se
non si accettano le
certezze della Chiesa andremo incontro a catastrofi. O si fa così oppure non
avrete speranze. C'è
una percezione apocalittica del tempo presente. In Giovanni Paolo II la visione
era più
problematica, c'era comunque la consapevolezza che anche il cammino della
Chiesa, come quello
della modernità, non fosse completamente limpido.
Tra le altre confessioni della cristianità il protestantesimo sembrerebbe
quella più in grado di rivendicare un
legame con i principi fondanti della modernità. Eppure nel libro questa tesi è
smentita. Come mai?
Uno dei luoghi comuni è che il protestantesimo era la religione che aveva
prodotto il mondo
moderno, quindi l'espressione religiosa del cristianesimo che avrebbe dovuto
trovarsi più a proprio
agio nella modernità. E invece alcuni contributi nel volume dimostrano che le
cose non sono andate
proprio così. Da un lato, il protestantesimo subisce l'uscita dal religioso che
costituisce un aspetto
della modernità. Anzi, fra le chiese cristiane è quella che avverte in maniera
più forte la riduzione
numerica della propria presenza. Dall'altro lato, laddove il protestantesimo
tende ad avere più presa
nel mondo di oggi, lo fa in forme come il neopentecostalismo che negano proprio
il principio
moderno dell'autonomia del soggetto. Le tendenze fondamentaliste smentiscono la
previsione che il
protestantesimo sarebbe stata la religione più diffusa della modernità. Anzi,
quelle tendenze si
avvicinano al superstizioso e non alla razionalità moderna. Questo ha indotto
una parte degli
studiosi protestanti a ripensare il rapporto tra protestantesimo e modernità e a
mettere in rilievo
come non ci sia una determinazione causale tra moderno e protestantesimo. Semmai
il
protestantesimo ha avviato alcuni processi che, assieme ad altri fattori, hanno
contribuito a fare
uscire quella che noi oggi chiamiamo modernità. Ma non c'è una determinazione
causale. Avrà
contribuito a far scattare il valore dell'individuo e, se si vuole, anche della
tolleranza. Ma di per sé e
da sola la spinta protestante non avrebbe prodotto nemmeno questi aspetti che
sono il frutto di
processi storici più complessi.
Proviamo a tracciare un bilancio. La modernità dovrà fare i conti con il
ritorno del religioso o è pensabile ancora
un'autonomia del moderno dalla sfera religiosa?
Il volume si inserisce in un dibattito molto attuale, se il moderno veda un
ritorno del religioso
oppure no. La domanda, oggi, è: il moderno può essere pensato senza il
contributo del religioso?
Solo se usciamo dagli stereotipi possiamo capire come il rapporto tra moderno e
religioso sia un
rapporto complesso, biunivoco e di reciproca influenza. I contributi degli
studiosi nel volume non
danno risposte. Indicano delle piste. Non c'è una tesi preordinata se non quella
che occorra uscire
dall'idea di una contrapposizione tra religioso e moderno oppure di una
funzionalizzazione del
religioso al moderno. Nei vari momenti le diverse chiese hanno dato risposte
diverse al problema di
come porsi in rapporto al proprio tempo. E questo lascia campo aperto per
comprendere ciò che è
accaduto e ciò che può ancora accadere.
Ma il moderno si è autorappresentato alla sua origine come rottura dal
primato del religioso. O no?
Più che dal religioso, dall'autorità ecclesiastica. Il moderno si è connotato
come rifiuto
dell'imposizione e della tutela. E' qui che l'autorità ecclesiastica ha trovato
la ragione di una
contrapposizione. Non solo il moderno si è autorappresentato così, ma così l'ha
concepito l'autorità
ecclesiastica. Per questo lo scontro c'è stato e ha avuto un radicamento così
profondo.
La parte più problematica è analizzare come si concepisca oggi il moderno...
Certo, tanto è vero che oggi si utilizzano termini diversi: postmodernità, tarda
modernità, modernità
matura, ultramodernità. Da questo punto di vista, il moderno sta ancora cercando
di
autocomprendersi. Il moderno è diventato tale nel momento in cui si è separato
dal richiamo
normativo di una tradizione. Oggi siamo alla ricerca di una definizione
condivisa di che cosa sia
questa fase di una modernità che, avendo perso il criterio di giudizio in un
valore normativo, tende
inevitabilmente ad avere contenuti vari a seconda delle interpretazioni. Un
accordo su cosa sia il
moderno oggi, non c'è ancora.
in “Liberazione” del 30 luglio 2008