«D’accordo con Ratzinger: fiducia e ragione»

intervista ad Hans Küng



Ha da poco compiuto ottant’anni, ma il suo sguardo è sempre quello del forte ragazzo svizzero.
Figlio di un calzolaio di Sursee, nel cantone di Lucerna, ordinato sacerdote nel 1954, docente di
teologia per trentasei anni a Tubinga, ora è in pensione ma non si è affatto ritirato. Continua a tenere
conferenze, per diffondere quella che definisce una nuova etica mondiale, e continua a scrivere. La
mia battaglia per la libertà (edizioni Diabasis) è l’ultima opera: i suoi primi quarant’anni di vita
raccontati col solito piglio baldanzoso e conditi con giudizi mai compromissori, perché tutto si può
dire del professore di Tubinga ma non che gli manchi il coraggio.
Contestatore storico del centralismo curiale romano, testimone del Vaticano II, demolitore del
dogma dell’infallibilità papale, nel 1967 è proprio lui a chiamare sulla cattedra di teologia
dogmatica di Tubinga il suo collega e amico Joseph Ratzinger.
L’avventura di Ratzinger nell’antica città universitaria dura tre anni, poi il futuro papa, scioccato
dalle contestazioni studentesche del ’68, cambia strada. Nel 1979, Küng a causa delle sue posizioni
si vede revocare dal Vaticano la missio canonica per l’insegnamento. Continua a insegnare grazie
alla separazione del suo istituto dalla facoltà cattolica, ma il fossato che lo divide da Roma è sempre
più largo. Negli anni del pontificato di Wojtyla tenta inutilmente un contatto con il papa. Nel 2005
invece Benedetto XVI lo riceve a Castelgandolfo.

Professore, all’inizio della sua autobiografia lei dice di essere contento che la sua vita sia
andata com’è andata. Nessun rimpianto? Mai commesso errori?

Certamente ne ho fatti. Non sono infallibile, io. Il più grande nel 1979, quando mi illusi che la curia
romana avrebbe almeno osservato le proprie leggi. Non è andata così, ma lasciamo perdere.

Lei dice che la sua vita è stata una battaglia per la libertà, anche dentro la Chiesa. Una
battaglia vinta o persa?

Credo che in generale sia stata vinta. Però se parliamo del contrasto tra la mia concezione della
Chiesa e quella di Roma, direi che il risultato è ancora incerto.

A lei piace molto nuotare e una volta ha paragonato anche la fede al buttarsi in acqua. Non lo
si può fare in teoria, bisogna provare…

Sì, il nuoto mi sembra una buona metafora della fede. La fede è una questione di fiducia, e quando
ti butti ti accorgi che l’acqua ti sostiene. Ma sono d’accordo con Benedetto XVI quando dice che
occorre una fiducia ragionevole. Bisogna osservare anche le leggi fisiche: se non ti muovi, vai a
fondo. Ci vuole la fiducia e ci vuole la ragione.

Più di quarant’anni dopo, che cosa ha rappresentato veramente il Concilio Vaticano II per la
Chiesa cattolica?

La fine del medioevo e l’inizio di un’epoca nuova. Adesso a Roma qualcuno tenta di tornare al
medioevo, ma non penso che sarà possibile. Il Concilio è riuscito a introdurre e integrare nella
cattolicità il paradigma della riforma protestante e quello illuminista della modernità.
Il cammino è rimasto a metà, ma non si torna indietro.

Perché il cammino è rimasto a metà?

Il Vaticano II è stato un grande compromesso tra la maggioranza progressista dell’episcopato
mondiale e dei teologi e il nucleo duro della curia romana che aveva concentrato nelle sue mani
tutto il potere gestionale. Molti documenti conciliari risentono di questo compromesso e questa è
anche la ragione delle tante difficoltà incontrare nell’applicazione del Concilio, perché molti
problemi sono stati solamente accennati ma non risolti.

Secondo lei qual è il documento conciliare che rappresenta meglio lo spirito del Vaticano II?

La Gaudium et spes, la costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo approvata nel 1965. Lì si vede
lo sforzo di trovare veramente una via per la Chiesa di oggi. Importante è stato anche il decreto
sull’ecumenismo, Unitatis redintegratio. Nella costituzione dogmatica Lumen gentium vediamo


invece il compromesso in opera: c’è un contrasto evidente tra le parti sul popolo di Dio e quelle
sulla gerarchia ecclesiastica e l’infallibilità papale.

Che cosa l’ha fatta soffrire di più durante il Concilio, al quale lei partecipò come teologo
assieme, fra gli altri, a Joseph Ratzinger?

Mi fece soffrire il continuo contrasto tra la maggioranza progressista e la curia romana e poi l’esito
della Lumen gentium. Pensai: questa per la Chiesa sarà una tragedia.

Che cosa invece le diede gioia?

La grande speranza di quegli anni, che avvertimmo già nel discorso di apertura di Giovanni XXIII,
l’11 ottobre 1962. Quel giorno mi sembrò davvero possibile il ritorno all’unità dei cristiani
passando attraverso una riforma della Chiesa.

Lei ha più volte espresso giudizi severi nei confronti di Giovanni Paolo II. Non pensa di essere
stato troppo duro?

In realtà ho messo in luce anche gli aspetti positivi. Però, per esempio, nei confronti dei protestanti
ci sono state solo parole e niente è stato fatto per il riconoscimento dei ministri e per la celebrazione
eucaristica comune. Imputo poi a papa Wojtyla di non aver fatto nulla per la riforma della curia e
del papato e di aver praticamente reintrodotto l’inquisizione.

Lei parla di inquisizione, ma all’ex Sant’Uffizio per tanti anni c’è stato il suo amico Ratzinger.
Dunque deve decidere: amico o inquisitore?

Joseph Ratzinger è stato un mio caro collega, ma dopo il Sessantotto le nostre strade si sono
separate. Lui ha incominciato a salire la scala gerarchica ed è arrivato fino alla congregazione per la
dottrina della fede, che ha cambiato nome ma è sempre inquisizione. Teologi e filosofi non allineati
non vengono più messi al rogo come ai tempi di Giordano Bruno, ma le persone possono essere
“bruciate” psicologicamente.

Che cosa resta oggi del Concilio?

Molto. Soprattutto la liturgia in lingua volgare, anche se adesso qualcuno vuol tornare al latino. Io
non ho nulla contro il latino, ma penso che allontani i fedeli. Poi abbiamo altre cose importanti:
l’affermazione della libertà religiosa, il nuovo atteggiamento verso i protestanti e gli ebrei, la
condanna dell’antisemitismo, la valorizzazione dell’Islam e delle altre religioni.
Però quei compromessi di cui parlavo hanno impedito uno sviluppo più deciso e coraggioso.

E invece che cosa è andato perduto del Concilio?

È andata perduta la gioia di essere cattolici e la grande libertà d’espressione che c’era in quegli anni.

Come vede la Chiesa cattolica di oggi?

Una splendida facciata, tenuta in piedi da tanti eventi, dietro la quale l’edificio sta però crollando.
Chiese vuote, parrocchie senza pastori, giovani sempre più lontani.

Lei è per l’abolizione del celibato dei preti e il sacerdozio femminile. Ma nel mondo
protestante queste soluzioni non hanno portato grandi vantaggi.

Non ho mai detto che l’abolizione del celibato sarebbe una soluzione per tutti i problemi. Penso che
sarebbe un simbolo contro il clericalismo, allevierebbe il dramma della mancanza di pastori e
renderebbe possibile ordinare tanti teologi che hanno un’ottima formazione ma ora restano ai
margini. Quanto alle donne, vedo che nelle parrocchie spesso sono proprio loro a tenere in piedi le
strutture, e allora perché non riconoscerlo? I protestanti hanno problemi diversi dai nostri. La
questione vera è come fare in modo che cattolici e protestanti, insieme, si conformino al Vangelo.

Potrebbe darci un aggettivo per ogni papa da lei conosciuto da Giovanni XXIII in poi?

Giovanni XXIII è stato il più grande papa del ventesimo secolo. Paolo VI mi era simpatico ma lo
giudico ambivalente. Giovanni Paolo I se fosse vissuto sarebbe stato in linea con Roncalli.
Giovanni Paolo II è stato il rappresentante di un cattolicesimo polacco vicino a Pio XII e lontano
dallo spirito conciliare. Quanto a Benedetto XVI preferisco non trovare ancora un aggettivo perché
c’è tempo. Il fatto che mi abbia ricevuto a Castelgandolfo dimostra che è capace di passi coraggiosi.

C’è stato un abbraccio fra lei e papa Benedetto quando vi siete incontrati?

C’è stato un saluto molto cordiale, seguito da quattro ore di dialogo amichevole e aperto. Abbiamo
parlato di scienza e fede, del dialogo interreligioso e del mio impegno per un’etica mondiale
condivisa.

Un’ultima domanda. Come giudica le encicliche di papa Benedetto?

È bello che abbia dedicato la sua prima enciclica all’amore. Purtroppo però sono solo parole. Come
si può parlare d’amore e non vedere il dramma dei divorziati tenuti lontani dall’eucaristia, delle
donne che non possono prendere la pillola, dei sacerdoti che hanno relazioni con una donna, dei
matrimoni misti? La vera carità si esprime con i fatti.

 

a cura di Aldo Maria Valli     in “Europa” del 10 giugno 2008