La casetta di don Bruno è racchiusa in poche minuscole stanze ricolme di
libri. Bisogna scovarla attraverso una porticina accanto a una chiesa
nel centro di Roma salendo scale troppo ripide per i suoi 81 anni. Don
Bruno Nicolini è il cappellano degli zingari. Da cinquant'anni è l'uomo
di Dio in mezzo ai rom. Cominciò nel 1958 nella sua Bolzano per un'idea
del vescovo e fu incoraggiato dall'incontro con una piccola sorella di
Foucault. Fondò l'Opera nomadi che volle come associazione laica. Fu poi
chiamato in Vaticano sempre ad occuparsi dei nomadi nella
"Concistoriale" dell'epoca e vi rimase sotto Paolo VI nell' Apostolatus
Nomadum e sotto altri quattro papi fino al Consiglio per i migranti. Don
Bruno non ha mai smesso di essere il cappellano degli zingari. «Fatico a
trovare chi mi sostituisca - sorride - questa non è una carriera
lussuosa».
Ad ascoltare don Bruno si entra in un mondo di emozioni. Nella pioggia
che batte furiosa sulla finestrella in una plumbea mattinata di
primavera sembra di distinguere il rumore di ogni singola goccia. «E' il
cielo», esclama a voce fioca don Bruno appena irrompe il tuono.
A volte il sacerdote si sente un po' giù. Qulache giorno fa, sceso in
strada per prendere un caffè, incontrò una zingara che gli chiese
l'elemosina. «Io sono un uomo di Dio - gli risposi - ma oggi sono triste
perché non trovo Dio; vieni ti offro un caffè, ho bisogno di te». La
donna lo ringraziò e fu lei a pagargli da bere: «Non avevo bisogno della
carità ma di sentire qualcuno vicino».
Sotto il parlare pacato, come una preghiera di vita vissuta, don Bruno
fa vibrare l'indignazione per la'ria che tira contro immigrati e nomadi.
Da secoli gli zingari patiscono pogrom. «Perché non consentite una
riflessione sulle loro vite, sul loro modo d'essere senza la pretesa di
dire io so tutto e loro invece non sanno niente?». «Oggi c'è un
genocidio che passa soft - dice don Bruno - è subdolo, non te ne
accorgi, ti dicono di sì, per un verso, ma guai se proponi un'esperienza
di vita insieme agli zingari». Sono tempi brutti ma «i poveri sapranno
ascoltarli». «D'altra parte - sussurra - ci sono molti segni di una
società malata, casi di figli che uccidono i genitori e madri che
uccidono i figli o anche il malcontento di Napoli che non è soltanto per
la sporcizia ma per le persone fatte sporcizia». E allora - si domanda
il cappellano dei rom - «quando cominceremo a pensare, comunicare e fare
partendo dall'altro e non da noi stessi, attraverso il linguaggio che è
il nostro elemento femminile. Se non sogniamo più, la società si
distrugge».
E invece gli zingari sanno ancora sognare. «Lo zingaro - ci spiega -
vive un polo ideologico diverso dal nostro, dà senso ai valori
fondamentali e alla forza dei sentimenti, non alla dimensione economica.
E' difficile superare il modello dominante del profitto ma è proprio per
questo che gli zingari hanno resistito alle politiche repressive di
tutti i tempi. Il mondo zingaro è universale e ovunque è stato
disprezzato e perseguitato». E' stato odiato dai contadini che nel 1400
erano a loro volta servi della gleba del principe». La storia racconta
che nella sapiente Bologna dell'epoca gli zingari rubarono
all'Università ma l'Università rese loro il servizio.
Don Bruno conosce bene gli zingari, anche la disperazione e gli
sconquassi delle loro comunità a contatto con la società
post-industriale. Ammira la «religiosità» con cui si nascondono dietro
le canne sulle rive dell'Aniene «in condizioni mai viste neanche
all'epoca del genocidio nazista». Eppure «sapevano sorridere».
La settimana scorsa don Bruno era al campo Casilino 900. Venticinque
uomini hanno partecipato al convivio mangiando salsicce. Poi ognuno ha
raccontato come stava vivendo quei momenti sempre in attesa che
arrivassero gli agenti ad evacuare il campo. Gli zingari sono abituati a
nascondersi per ricomparire «appena il vento non sbatte più l'erba». «Mi
ha colpito - dice don Bruno - questo popolo che chiede perdono per chi
tra loro aggredisce i valori della vita. Non sono tutti santi. Il loro
linguaggio è bello e non consente di scherzare sull'altro. Eravamo tutti
presi: abbiamo capito che chi ha il cuore in mano e lo usa prima della
ragione può essere modello per la nuova città, per la nuova Europa».
Zingari come cittadini d'Europa, finalmente riconosciuti come tali e non
soltanto come cittadini di un singolo Paese. E' la richiesta della nuova
intelligentia zingara. Nei Balcani sotto i regimi comunisti i nomadi
hanno frequentato le scuole e settant'anni dopo la guerra ci sono
intellettuali che elaborano una nuova cultura dell'incontro, un "potere
zingaro" a fronte di un popolo perseguitato e differenziato al suo
interno. «Gli zingari non hanno diritto di esistere - provoca don Bruno
- se sono soltanto l'oggetto della nostra elemosina. Dobbiamo finirla
col pietismo, è il tempo invece dell'incontro tra le culture». «Oggi
l'Europa impone una nuova costruzione dei rapporti di cittadinanza, ciò
può far sorridere pensando ai grandi poteri ma la storia ha dimostrato
che gli zingari sono sopravvissuti a Hitler e a Stalin».
Come è stato possibile? Gli ebrei almeno avevano una religione propria,
un'intellettualità; gli zingari no. «Gli zingari non sono una minoranza
come le altre, ci si domanda come faccia oggi a resistere all'immersione
nella società dei consumi» benché il pericolo incomba sui campi e la
televisione sempre accesa nelle baracche sia una minaccia. «Lo zingaro
ha una vocazione alla vita, vive in comunione con gli altri; l'altro, il
manùs , è l'avversario ma va aiutato quando versa nel bisogno. Si fa
festa quando qualcuno esce dal carcere perché tutti fino a quel momento
si sentivano in carcere con lui».
«Sento dire che la cultura zingara sarebbe incompatibile con la nostra.
E' questa l'eresia che attraversa anche la nostra chiesa, è questa
l'idiozia che attraversa la nostra cultura. E' un pericolo tremendo per
la nostra gioventù, è l'asfissia delle nostre parrocchie dove non ci si
incontra più». Sul tavolo di don Bruno c'è un fascicolo: un gruppo di
zingari, parroci e docenti universitari sta conducendo un'indagine sul
comportamento delle parrocchie nei confronti dei nomadi. «Per farlo
sapere al Papa», precisa il sacerdote.
Proprio ieri il cappellano ha accompagnato un funerale zingaro al
Testaccio insieme al pastore dei pentecostali. Da anni sono loro i più
seguiti nei campi anche se la religione dei rom spesso mescola le
confessioni. Che bella sarebbe un'Europa diversa, che bella sarebbe una
«città felice». Quando papa Wojtyla incontrò gli zingari - ricorda don
Bruno - disse più o meno: «Il vostro modo di vivere può essere
eccellente per il Vangelo. Oggi avete la tentazione di mollare di fronte
al consumismo ma io vi esorto a non mollare. Nella nuova Europa a voi
tocca un posto particolare. Siete chiamati anche voi a costruire una
casa europea dando prova dei vostri valori cristiani».
Don Bruno, ma oggi tutti gridano che ci vuole sicurezza.
C'è bisogno di fanciullezza, di rispetto; siamo fragili in tutti i sensi
e stupidamente cerchiamo di difenderci in tutti i modi. Ci manca la
libertà profonda di credere in un nuovo mondo. Dio farà sognare e i
sogni daranno slancio agli uomini per una nuova civiltà. Da qui dovrebbe
nascere la nuova Europa, non da un'imposizione, neanche da parte
cattolica.
Qual è il confine tra una buona integrazione dei rom e una violazione
della loro identità? Per esempio è utile offrire una casa in muratura?
C'è uno scambio. L'importante è che sia nutrito sulle radici
dell'identità. Il luogo è cruciale nella cosiddetta integrazione. Per
gli zingari il nomadismo è una variante dell'essere fermo. Nell'economia
agricola lo spazio c'era, oggi no; in parte lo hanno recuperato mediante
l'auto che ha sostituito il cavallo e il telefono che usano moltissimo
pagando un sacco di soldi. Alla domenica i giovani girano per tutte le
case dove ci sono ragazze per assicurare che il matrimonio nasca da
un'autentica simpatia e sia premessa di fedeltà. Ciò colpisce un
sacerdote. La casa, sia essa una tenda, una roulotte o un campo,
richiede rispetto per i valori fondamentali della sessualità e della
sacralità dei genitori. La casa popolare non si adatta perché la loro
casa deve ospitare il gruppo. La parte nobile è sempre lo spazio
dell'incontro. Ma fuori, ormai, la città ha occupato tutto lo spazio. I
nostri modelli architettonici sono spesso disumani. Ci vuole una
concezione di città aperta, di cosmopoli. Queste minoranze potrebbero
essere utili per realizzare il sogno di La Pira di una città che combini
la famiglia con l'edificazione. Ma abbiamo problemi economici, non
possiamo nemmeno privilegiare gli zingari e allora dobbiamo
accontentarci di forme combinate di collaborazione. Lo zingaro,
rispettando le regole estetiche esterne, deve poter costruire l'interno
della propria casa. Hanno un rapporto di odio e amore verso la casa:
amore perché rappresenta un riparo dal rischio di essere scacciati, odio
perché è sempre una minaccia alla loro identità. I rom calderrassa
mantengono un ordine quasi religioso. Ma quando un rom si sente
disprezzato o insultato e minacciato anche dal vigile urbano tutto
salta.
E come affrontare il problema dell'accattonaggio?
L'accattonaggio colpisce il nostro modo di agire col denaro. Al tempo di
Francesco il povero era rispettato come immagine di Cristo, poi è stato
disprezzato come reprobo, oggi si pensa che l'ordine debba dominare.
L'accattonaggio offende ciò che rappresenta per noi il bambino. In
realtà in genere il bambino è amato e gli scandali di bambini sfruttati
sono un'eccezione. Nella storia gli zingari prendevano i bambini
abbandonati nella ruota. Certo l'accattonaggio si è prestato a forme di
speculazione con bambini dati in prestito durante l'estate. Ma
nell'economia agricola d'un tempo anche mia madre era costretta a
diventare serva della gleba per tre mesi all'anno. Al santuario del
Divino Amore c'è una scritta: non autorizziamo a fare l'elemosina. Ho
spiegato al rettore che possiamo fare qualcosa di più: non proibire alle
donne l'accattonaggio ma convincerle a non impiegare i bambini.
Anche perché altrimenti non vanno a scuola.
E questo è un delitto. Tra i sinti e i calderassa nessuno fa
accattonaggio. Lo fanno invece i romeni appena arrivati da una società
agricola in cui si usa ancora il cavallo. La scuola e l'evangelizzazione
eliminano il fenomeno. Bisogna puntare sulla scuola, dall'asilo nido. Ma
non vanno bene ordini del Comune del tipo: potete stare nel campo solo
se mandate i bimbi a scuola. Serve piuttosto la strategia di Dio nel
Vecchio Testamento: responsabilizzare, convincere all'educazione e dare
la certezza che nessuno sarà abbandonato. Ad esempio, garantire un
sussidio alle donne sole, come accade a Trento o a Bolzano. Perché
anziani e handicappati non possono ricevere una pensione?
«E poi c'è il lavoro, che è fondamentale. Il Terzo settore può svolgere
un'opera importante: fare in modo che i grandi complessi favoriscano la
formazione d'arti e mestieri nei gruppi zingari».
Un tempo don Bruno sfidò l'arresto per abbattere i muri di una scuola e
aprirla ai nomadi. Ci parla di maestri che imparano dagli alunni, di
bambini che arrivano a scuola dopo una notte insonne nel campo svegliati
dalla polizia; sogna una «riscossa della Costituzione» in una città
solidale. Come don Milani e come se la scuola di Barbiana fosse ora
nascosta dietro le canne dell'Aniene.
Fulvio Fania liberazione 24/05/2008 |