«Italia, una teocrazia a democrazia limitata»
ALAIN TOURAINE ha dedicato i suoi ultimi studi alla laicità in epoca di
multiculturalismo e di integralismi religiosi. L’abbiamo incontrato: ecco, agli
occhi del grande sociologo, qual è il gap che il Vaticano impone al nostro Paese
Di laicità dello Stato, ingerenze della Chiesa, derive integralistiche discute
con noi Alain Touraine. A ottantadue anni il grande sociologo continua a
esplorare strade nuove. I suoi libri, asciutti ed essenziali, sono ogni volta
una provocazione, e l’ultima sua fatica, Un dibattito sulla laicità (XL
edizioni, pp. 188, 14 euro), risultato del dialogo con il filosofo Alain Renaut
sulla laicità in Francia, inquadra da prospettive diverse la questione scottante
della società multiculturale e della tolleranza. Il dibattito prende le mosse
dall’approvazione, nel marzo 2004, della legge che vieta di «ostentare i simboli
religiosi a scuola», un provvedimento che si riferisce a tutti simboli, ma che
concerne in particolare il velo indossato da ragazze di fede musulmana.
Se Touraine insiste sulla necessità di difendere le acquisizioni moderne della
laicità, per Renaut essa rischia di essere superata dalla trasformazione della
società contemporanea: non si vede infatti in quali termini l’applicazione del
principio della separazione dello Stato dalle organizzazioni religiose stabilito
nel 1905 possa contribuire al giorno d’oggi a far fronte alla questione delle
differenze culturali, di cui lamenta, in Francia, la mancanza di riconoscimento;
e considera la legge sul velo come un passo indietro, mentre per Touraine essa
rappresenta un freno al dilagare di un fenomeno realmente pericoloso.
Secondo Renaut, la difesa della laicità, come principio assoluto, appare
storicamente immotivata: la separazione tra Stato e Chiesa è oggi ormai da tutti
accettata, e il filosofo suggerisce quindi di «riconsiderare il principio di
laicità affinché le differenze non siano più solamente neutralizzate ma
integrate». Touraine puntualizza a sua volta come i diritti vadano considerati
individuali, più che di gruppo: ne consegue l’impossibilità di accettare quelle
istanze che trasformano un diritto - nella fattispecie quello di indossare il
velo - in una contrapposizione che può implicare derive integralistiche. In
questo senso Touraine difende la legge in quanto provvedimento concreto e
nient’altro, per arrestare, finché si è in tempo, «l’insorgere dell’islamismo
radicale nelle scuole».
I due intellettuali condividono però l’allarme di una deriva «integralistica»,
poiché al di là della necessità di contenere il fondamentalismo, l’annullamento
delle diversità, in nome dell’universalità dello Stato repubblicano,
comporterebbe il declino della civiltà. E il dialogo, sebbene nato
dall’esperienza francese, appare costruttivo anche per gli altri Paesi, specie
in un momento in cui alla questione dell’incontro fra le culture, che andrebbe
affrontata con una certa dose di lungimiranza, si antepongono interessi politici
«immediati».
Se in Francia laicità equivale a morale repubblicana, in Italia essa significa
soltanto accettazione delle religioni da parte dello Stato, «garante della
neutralità e della tolleranza», e a Touraine appare «inaccettabile che i vertici
dell’episcopato italiano, intervengano nella televisione pubblica, come se
quella italiana fosse una società di tipo teocratico». Del fatto che «non
sarebbe possibile approvare in Italia una legge sulla laicità simile a quella
francese» è convinto il sociologo «poiché esiste una 'specificità italiana',
condizionata dalla Chiesa. Ma il ruolo del Vaticano va ricercato in quella che
definirei la parziale sconfitta dell’unità nazionale, con scarsa capacità
d’integrazione, come si riscontra tuttora nella lingua e nel regionalismo».
Non stupisce Touraine, pertanto, il fatto che in Italia l’episcopato eserciti
una pressione notevole per il finanziamento delle scuole cattoliche, e che la
sinistra attualmente al governo accetti di scendere a patti con il Vaticano: «è
una lunga storia, dovuta sia all’Unità d'Italia nel 1870, come ho già detto, sia
al Concordato del 1929». Sul fatto che la Chiesa continui a influenzare la
politica, la società, la cultura di base degli individui, egli non ha dubbio
alcuno: un paio d’anni orsono, proprio mentre in Francia «ci ponevamo il
problema del velo, il Vaticano denunciava l’Imam abruzzese che aveva chiesto di
rimuovere il crocefisso dalle aule scolastiche».
Invece, nella scuola francese la libertà di pensiero è forse non «’sacra’, ma di
certo molto difesa e voluta», e la Francia può pertanto dirsi un Paese del tutto
laico e - tiene ad aggiungere lo studioso, riferendosi a pagine fra le più buie
della storia nazionale - «la Chiesa cattolica interviene molto poco nella vita
politica, specie dopo avere appoggiato il governo di Vichy e del maresciallo
Pétain, con la Chiesa e i cardinali che benedicevano il maresciallo», ha in
seguito «solo per buonsenso evitato di parlare troppo ad alta voce». Lo storico
cattolico di recente scomparso René Rémond «mio amico - ricorda - è stato a
lungo il principale portavoce dell’insegnamento cattolico nelle università, ma
non riteneva che lo spirito laico fosse in conflitto con quello cattolico». E
d’altronde, nello Stato francese, «il diritto di insegnare e l’oggettività da
parte dei docenti cattolici nelle scuole pubbliche nelle università» era
scontato.
Il tutto, ancora una volta, è molto diverso da quanto avviene in Italia. La
Chiesa, nel caso dei Dico, ad esempio, «si attribuisce dei poteri che non
sarebbero mai permessi altrove»: da questo punto di vista, «la Francia è un
Paese pacificato, dopo essere stato realmente in guerra fra la laicità e il
clericalismo, mentre anche in questo in Italia la società e la cultura appaiono
fortemente condizionate dalla Chiesa cattolica».
Nonostante tutto, in conclusione, Touraine si mostra ottimista: «l’Italia si
libererà di questo condizionamento del tutto artificiale, che non dà un’immagine
positiva della Chiesa cattolica; quest’ultima dovrebbe essere più presente in
Asia, in Africa o altrove, piuttosto che conservare il controllo delle anime e
della politica in piccoli Paesi europei che, quali i nostri, contano ormai ben
poco per il progresso del mondo».
Anna Tito
l’Unità 2.12.07