Non nominare Dio invano

Vorrei distinguere la parte che svolgo nella mia veste di politico e quella che svolgo come credente.
Non perché questo mi conduca a due conclusioni diverse, ma perché mi sembra necessario
sottolineare una distinzione tra i due piani del discorso, che troppo sovente è ignorata o trascurata.
Nella veste di membro, laico, del Parlamento di una Repubblica laica, chiamato a stabilire quale sia
il confine tra vita meramente biologica e vita umana, tra stato vegetativo reversibile e irreversibile,
ritengo che la legge debba limitarsi a definire il confine al di qua del quale c’è sicuramente vita
umana da difendere con ogni mezzo, e il diverso confine al di là del quale il corpo umano può e
deve essere considerato a tutti gli effetti morto. Questi sono i soli certi fines, i confini sicuri, che un
ordinamento civile può e deve porre. Ed essi non sempre coincidono tra loro. Dico che non
coincidono perché tra di essi talvolta si presenta una sorta di zona grigia, una zona di ragionevole
opinabilità – corrispondente a quella che gli anglosassoni chiamano band of reasonableness delle
opzioni possibili – dove possono verificarsi un’infinità di situazioni-limite particolari la cui
qualificazione è controvertibile. Qui, a ogni cittadino deve essere consentito, con l’assistenza del
medico o di altro consigliere qualificato di sua scelta, agire secondo la propria coscienza.

Per quel che mi riguarda, in una situazione nella quale, come nel caso di Eluana Englaro, fosse
ragionevole ritenere irreversibile la mia totale perdita di coscienza, cioè ritenere il mio corpo di
fatto condannato a una vita puramente vegetativa, privato irreversibilmente di mente e coscienza,
sentirei gravemente lesa la dignità della mia persona se quel corpo venisse mantenuto in vita per
lungo tempo, ancorché nel modo più amorevole e rispettoso. Penso che questo senso di ribellione
all’idea di una prolungata permanenza forzata in vita del proprio corpo privato per sempre della
coscienza sia condivisa dalla grande maggioranza dei miei concittadini. Per questo ritengo che un
legislatore laico, fissati i confini della zona di ragionevole opinabilità, debba riconoscere ai familiari
di chiunque si trovi in una situazione di questo genere la libertà di scegliere secondo coscienza: di
scegliere, cioè, se continuare o no ad alimentare una vita che può essere altrettanto ragionevole
ritenere ancora vita umana, quanto non ritenerla più tale. (...).


Detto questo, e parlo ancora come membro, laico, del Parlamento di una Repubblica laica, rispetto e
difendo il diritto di chiunque, nel nostro Paese, quindi anche dei vescovi e in generale del Magistero
ecclesiastico cattolico, come degli esponenti di ogni altra chiesa o comunità religiosa, di esprimere
liberamente la propria opinione sul discrimine tra vita e morte, tra vita biologica e vita umana, e
anche su che cosa la legge dovrebbe stabilire al riguardo: dissento dunque recisamente da chi vede
negli interventi delle Autorità religiose sul terreno politico-legislativo una ingerenza indebita o
comunque una scorrettezza.
È come cristiano – forse sarebbe meglio dire: come persona impegnata a coltivare intensamente il
patrimonio plurimillenario della tradizione biblica –, è in questa veste che mi rammarico di
interventi del tipo di quelli che la Chiesa cattolica con frequenza compie su ciò che questo
Parlamento deve o non deve fare.
E mi rammarico dell’atteggiamento – che non esito a definire
clericale, nel senso peggiore del termine - di un Governo che a questi interventi assoggetta
programmaticamente e sistematicamente il proprio agire; incurante, oltretutto, del fatto che della
nostra tradizione biblica non è depositaria soltanto la Chiesa cattolica, ma anche altre, come quelle
protestanti e in particolare quella valdese; ne è depositaria pure, e da molto prima, la Comunità
ebraica. E tutte queste, dalle Scritture, traggono insegnamenti di etica politica talora profondamente
diversi rispetto alla Chiesa cattolica.

In consonanza con tanta parte di questa grande comunità di persone che nella tradizione biblica
cercano il senso della propria vita, penso che la testimonianza di una Chiesa cristiana non debba
mai consistere nell’indicare la soluzione giuridico-legislativa specifica da preferire, né tanto meno
le concrete modalità dell’impegno politico; penso che essa invece debba educare i cristiani
all’esercizio responsabile della loro coscienza, lasciando che proprio quest’ultima - la coscienza -
resti il punto di riferimento fondamentale per ciascuno di loro nelle scelte politiche, giuridiche,
tecniche.
Pietro Scoppola amava citare, a questo proposito, un’affermazione del Concilio
Lateranense IV del 1215: «Quidquid fit contra conscientiam aedificat ad Gehennam» («qualsiasi
cosa che si faccia contro la propria coscienza prepara all’Inferno»). Ultimamente, la Gaudium et
Spes del Concilio Vaticano II ha detto, con altre parole, la stessa cosa (§ 16): «L’uomo ha in realtà
una legge scritta da Dio dentro al suo cuore: obbedire ad essa è la dignità stessa dell’uomo e
secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove
egli si trova solo con Dio». Nelle materie che vanno «rese a Cesare» (Mt., XXII, 21) – e tra queste
vi è certamente la materia della legislazione civile - le scelte operative devono esprimere i valori in
cui crediamo attraverso la mediazione della coscienza di ciascuno di noi.
«Rendere a Cesare quel che è di Cesare» significa rispettare la laicità dello Stato, della sua politica,
della sua legislazione. Questa laicità è sostanzialmente il metodo che consente a tutte le persone di
buona volontà di trovare un terreno comune sul quale mettere in comunicazione le loro coscienze,
ispirate a fedi e filosofie anche molto diverse, per cooperare nella ricerca delle soluzioni tecniche,
politiche, legislative migliori per il bene del Paese.
Quel terreno comune viene meno se c’è
qualcuno che su di esso (cioè in quello spazio che il Vangelo ci invita a «rendere a Cesare»), si
presenta con la verità in tasca, già bell’e confezionata, certificata con il sigillo della conformità alla
volontà di Dio. Con gli occhi di chi legge la Bibbia, vedo in questa pretesa una violazione del
secondo Comandamento: «Non nominare il nome di Dio invano».
Per concludere, chiedo alla Chiesa di affermare con forza il valore della vita; ma di rendere alla
scienza ciò che le è proprio. Lasciare, cioè ai neurologi la valutazione tecnica circa l’irreversibilità
della scomparsa di una componente essenziale della vita umana: la mente, la coscienza; lasciare, più
in generale, ai medici la scelta del modo concretamente più umano e caritatevole di trattare, nella
loro infinita varietà, i casi in cui si determina questa scomparsa irreversibile. È compito della Chiesa
continuare a educare con rigore e passione le persone ai valori evangelici; ma essa deve lasciare
loro – e in particolare a quelle che sono impegnate negli organi legislativi e amministrativi dello
Stato – la libertà di compiere secondo coscienza le scelte proprie della funzione civile o
professionale che esse svolgono, confrontandosi in proposito con le persone di fede diversa senza la
pretesa di possedere in quel campo una verità rivelata, direttamente attinta dalla volontà divina.

Anzi, credo che la Chiesa debba vegliare a che nessuno avanzi questa pretesa, nessuno violi il
secondo Comandamento.

Al Governo e al Parlamento chiedo di riconoscere e proteggere, come impone la Costituzione, nella
zona tra i due confini - della certezza di vita umana da una parte, della certezza di morte dall’altra -,
quella band of reasonableness delle opzioni possibili, all’interno della quale ogni cittadino, cristiano
o no, deve poter decidere e agire secondo la propria coscienza.
 

Pietro Ichino*        La Stampa 10 febbraio 2009

* L’intervento che il senatore del Pd avrebbe tenuto ieri sera a Palazzo Madama se la seduta non
fosse stata sospesa