Non fate di Pasolini un santino
 

Trent’anni sono tanti, eppure Pasolini ancora tra noi, come fosse ieri. È diventato un “lagnoso luogo comune”, ha scritto Piergiorgio Belloccio presentando i suoi scritti di “politica e società” per i Meridiani, dire che “quel che manca è un Pasolini”, anche se davvero Pasolini “non avrebbe esitato un istante a pronunciare certi ‘no’ doverosi e indispensabili”. “Ma bisogna convenire”, aggiungeva, “che Pasolini ha dato, e detto, tutto. La ‘fine della nostra storia’, cioè della speranza politica, annunciata da Pasolini vent’anni prima, e ora davvero definitiva, non poteva che coincidere con quella della sua privata esistenza”.

Ai funerali di Pasolini Elsa Morante gridò “non si ammazzano i poeti!” e Moravia disse che era stato ucciso un “patriota” che la sua patria non aveva saputo riconoscere, accettare, amare. Poeta in senso pieno e coinvolto, quasi ottocentesco, e patriota lo stesso, l’esistenza di Pasolini si è misurata tra queste due qualità vivendone fino in fondo le contraddizioni. Che furono tante e non vanno dimenticate ora che, trent’anni dopo, si va facendo di Pasolini una sorte di generico santino da parte di una cultura molto ipocrita, incapace di nessuno dei suoi slanci e azzardi, e litigiosa solo attorno ai modi diversi di intendere l’accettazione delle regole date, il massimo conformismo rispetto al presente. Una cultura molto televisiva  e mediatica, che ha portato all’estremo le tendenze denunciate da Pasolini. 

“L’Italia , e non solo l’Italia del palazzo e del potere, è un paese ridicolo e sinistro: i suoi potenti sono delle maschere comiche, vagamente imbrattate di sangue, contaminazioni tra il Molière e il Grand Guignol”: Ma “i cittadini non sono da meno”, ingannati e beffati dal potere però con il loro consenso e la loro soddisfazione. Gli ultimi trent’anni della nostra storia politica e sociale non hanno certo tolto forza e veridicità alle denunce pasoliniane, al contrario. Ed è questo che le celebrazioni di quest’anno tendono a dimenticare, timorose di parlare dell’oggi come dell’avveramento delle peggiori paure pasoliniane. E di considerare la perfetta coscienza che Pasolini aveva più di ogni marxista che tutto era questione, infine, di “modi di produzione”, e che il tipo di produzione di merci, cioè di economia, è anche produzione  di “rapporti sociali, umanità”. Pasolini fu uomo e artista di forti contraddizioni. Il più apparentemente impolitico dei nostri intellettuali fu però il più lucido e il più radicale nel vedere le logiche dell’economia e della politica e i loro effetti.

I lavoratori, diceva Pasolini, vivono nella “coscienza l’idea di progresso” ma “ nell’esistenza l’aspirazione allo sviluppo”, e cioè al consumismo . Ma si può forse mettere in dubbio che gli anni in cui maturava la sua coscienza del “genocidio” in atto di una cultura contadina, popolare, proletaria e sottoproletaria, non fossero anche i più vitali per la sua produzione artistica , poesie romanzi e film, che non partecipasse anch’egli di quella vitalità collettiva che il Paese viveva , e che pareva, almeno fino ai dintorni del 1963 e 1964 (il rifiuto del centrosinistra da parte di una ottusa classe dirigente, la “congiuntura”), dover portare a un’armonia di progresso  e sviluppo, a benessere, riforme, giustizia, democrazia? 

Era giusto allora pensare che molto, moltissimo fosse possibile riuscire a fare, e godere della considerazione che si fosse meno poveri e meno ignoranti, dopo anni che erano stati per tanti di inumane difficoltà e privazioni; ma alla lunga dovemmo riconoscere che Pasolini seppe vedere più a fondo e più lontano, e il suo pessimismo sulla “mutazione” ha finito necessariamente per convincerci: "Era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così a un tale trauma storico”: Ma a parte le sue contraddizioni più vistose, che più gli venivano rimproverate dai “puri e duri” del ‘68, compreso chi qui scrive, ma che non sono così sbalorditive e fanno inoltre parte di un’ambiguità eterna dell’artista in qualsiasi società, non era certo una contraddizione denunciare che lo stesso processo di corruzione che vivevano e promuovevano le nostre classi dirigenti aveva investito e travolto tutto “il Paese”, tutto “il popolo”. Ed era questo che più gli si rimproverava, questa amarissima e durissima constatazione…

Nell’”abiura della Trilogia della vita”, Pasolini scrisse : “Io mi sto adattando alla degradazione e sto accettando l’inaccettabile”: Ed è alla luce di questa dichiarazione che bisogna, credo, interpretare la scissione vissuta negli ultimi anni tra le sue opere e le sue dichiarazioni politiche, sociali, culturali: sempre più “borghesi” le prime e sempre più antiborghesi, possiamo dire, le seconde. 

La perdita di ogni speranza ha portato Pasolini su un terreno di estrema difficoltà personale, e se resta vero che gli accadimenti della sua morte – altro elemento di ossessiva fascinazione sulla cultura di questi anni – è anche il prodotto indiretto di una persecuzione collettiva nei confronti di un “patriota” non amato dalla sua patria, è pur vero che delle tante ipotesi su come essa sia avvenuta che si sono scontrate non solo sul terreno giuridico ma anche tra i suoi amici e vicini, la più convincente ci sembra ancora quella espressa dal cugino Nico Naldini, di cui ora si ripubblicano gli aurei ricordi di gioventù e d’amicizia sotto il titolo di Come non ci si difende dai ricordi (Cargo, Napoli 2005, pagg. 176, € 12,00). Ritroviamo in essi un Pasolini giovane e solare e amante della vita, un Pasolini aspro e combattivo e “scandaloso”, ma anche un Pasolini disilluso e amarissimo e che “non riesce a darsi pace” dopo “aver visto perire l’anima di due epoche dell’umanità, il mondo contadino friulano e quello delle borgate romane , e assistito dovunque all’estinzione dello spirito popolare”. Un ritorno alla componente piccoloborghese, un buttar la vita alle ortiche, un non credere più in un futuro possibile, un somigliare al borghese del finale di Teorema in fuga nel deserto, uno scegliere, cosciente o meno, di non più esserci. Mentre però continuava a vedere e denunciare con assoluta chiarezza la barbarie da cui ci lasciavamo travolgere.

 

Goffredo Fofi   da “Il Sole-24 Ore”, 30 ottobre 2005