NEW YORK E NEW ORLEANS

 

Non era ma, successo che un presi­dente americano perdesse due grattacieli di New York, una città come New Orleans, e facesse due guerre senza vincerle come in Af­ghanistan e in Iraq. Ciò è riuscito a Bush, che rappresenta ormai una specie di prova regina contro la democrazia presi­denziale, perché è un presidente che perde tutto e vince le elezioni, riuscendo nell’im­presa di essere il peggior presidente possi­bile nel peggior momento possibile. A dire queste cose ieri si passava per antiamerica­ni, oggi è tutta l’America che lo dice.

La perdita di New Orleans è molto più gra­ve, per l’America e per il mondo, della per­dita delle Due Torri. Nessuna delle due è stata una disgrazia, frutto di un fato impre­vedibile. Se non si vuole pensare, con un rozzo provvidenzialismo, che sia Dio ad armare la mano dei kamikaze, a mandare gli uragani e a spedire Bush alla Casa Bian­ca («se sono qui, disse il presidente neo-cristiano al cardinale Laghi prima della guer­ra all’Iraq, vuol dire che Dio c’è») queste catastrofi sono opera umana, conseguenza di scelte irresponsabili e di comportamenti iniqui che si sono protratti per anni. Le Due Torri starebbero ancora lì, se gli Stati Uniti non avessero confuso l’islam con gli harem, gli arabi con «vù cumprà» di basi militari e di petrolio, e se i bulldozer non avessero raso al suolo le casupole e gli oliveti dei palesti­nesi nella patria occupata. New Orleans non avrebbe sperimentato l’abbandono, l’affron­to di essere presentata al mondo come una città di jazz e di sciacalli, e il trauma di ve­dere irrompere i soldati casa per casa con le armi in pugno per snidarne gli abitanti come in un quartiere di Bagdad, se alla pro­tezione civile, cioè alla vita dei cittadini, si prestasse un decimo dell’attenzione e dei denari che si consacrano alla distruzione dei nemici e alla morte extra moenia.

La differenza tra Manhattan e New Orle­ans è che mentre le vittime delle Due Torri hanno potuto essere usate per una colos­sale operazione politica di espansione dell’impero che ha gettato il mondo nella guer­ra perpetua, le vittime della Louisiana e del Mississippi non possono essere usate da nessuno e gridano che il re è nudo. In verità anche quelle di New York levavano lo stesso grido, ma esso è stato occultato dalla disinformazione, dall’interdizione di ogni inchiesta indipendente, dalla soppres­sione patriottica delle libertà civili e dal conformismo internazionale di massa, e la conversione non c’è stata.

Ma dopo New Orleans la conversione è ne­cessaria, e i mentecatti devono lasciare il potere. Erano anni che gli scienziati dice­vano che il saccheggio della terra, la su­premazia del denaro, il vangelo della com­petitività e la perdita di ogni regola nella produzione e nell’uso dell’energia, avreb­bero provocato eventi meteorologici estre­mi, e città intere sarebbero state sommer­se. È successo prima di quanto si pensas­se. La tragedia di Katrina dice che non si può affrontare il diluvio con le pompe, come non si può vuotare l’oceano con un cucchiaio. D’altronde bisognerebbe evitare che il rimedio fosse di salvare pochi sopravviventi in un’arca, un resto per ripo­polare la terra. L’arcobaleno c’è già stato, come segno di un’alleanza il cui contenu­to era che tutti gli uomini dovevano essere salvi.

In questa situazione, la politica concepita come risposta a una sorta di ontologica polemicità del reale e come gestione del conflitto ineliminabile con l’altro, lo stra­niero, il desiderante, intesi come nemico, deve essere licenziata. La politica è la ge­stione della terra, patrimonio comune di una umanità indivisa. Non si tratta solo di amarci, che può essere considerato un lus­so di quanti si riconoscono figli di Dio. Non si tratta solo di essere solidali, che può es­sere considerata un’eccedenza etica non adatta alla modernità. Si tratta di ricono­scere che siamo consorti, cioè che abbia­mo uno stesso destino. E ormai non fun­ziona più il calcolo di trasferire i costi alle generazioni future, che è la rassicurazione interessata di ogni apocalittica. Le genera­zioni destinate a pagare i nostri conti, le nostre dissipazioni, le nostre violenze, si stanno avvicinando sempre più, stanno di­ventando le generazioni dei nostri nipoti, dei nostri figli. Lo stiamo diventando noi stessi. Questo è il nuovo oggetto della poli­tica, non quello su cui ancora contendono gli officianti di una politica in agonia, che rischia di trascinarci nella sua stessa fine. Se non la riprendiamo in mano, ha ragione il direttore del centro islamico di Bologna, a dire che nessuno è più innocente.

R. La Valle        Rocca 18/05