Naufragio con spettatore
Il relativismo etico e le sue conseguenze
Intervista a Domenico Antonino Conci di David Baldini
Caro professore, prima di cominciare questa intervista su un tema così delicato quale è quello del cosiddetto "relativismo etico", di recente rilanciato con forza da papa Benedetto XVI, forse non sarebbe male procedere ad una puntualizzazione di carattere linguistico. Perché, le chiedo, a proposito dell’etica, i mass media oggi usano acriticamente il termine di "relativismo" anziché quello, meno negativamente connotato, di relatività? Ricordiamo che analogamente accadde nel primo Novecento, quando si trattò di combattere il fenomeno dello scientismo positivistico. Allora la Chiesa ricorse al termine "modernismo" - in cui il suffisso -ismo era chiaramente da leggersi in una accezione tutta negativa - anziché a quello più asettico di modernità.
Occorre subito precisare che il termine "relatività", come è noto, si riferisce ad un modo di intendere l’universo secondo i principi di Albert Einstein. Così, onde evitare una insignificanza, si è preferito parlare di relativismo, dove "relativo" - nell’accezione corrente - è percepito come l’opposto di "assoluto". Semanticamente, la parola relativismo ha dunque una sua legittimità, anche perché essa è servita, nel passato, ad evitare pericolosi fraintendimenti. Nel primo ventennio del Novecento si è infatti ritenuto, ovviamente a torto, che la teoria di Albert Einstein avesse ad esempio portato un contributo scientifico alle idee relativistiche, sia con riferimento alla morale che all’ epistemologia. Allora, per altro, si riteneva che fossero relativi non soltanto il bene e il male, ma anche - come del resto oggi si continua a fare oggi - la verità stessa.
In definitiva, dal punto di vista del rapporto con l’etica, cosa hanno di così radicalmente diverso questi nostri tempi di globalizzazione rispetto alle epoche passate? Si può a ragione parlare di una rottura, o c’è da registrare semplicemente una sostanziale continuità?
Io sono convinto che si tratti di una soluzione di continuità. Questa però dura da tempo, avendo i suoi presupposti nel secolo scorso, il secolo (con le sue due guerre mondiali) più sanguinoso di tutta la nostra storia. La rottura, per altro già vaticinata da Nietzsche alla fine dell’Ottocento, si compendia nella perdita del primato - tanto culturale quanto economico - dell’Europa nel mondo.
D’altro canto, da un punto di vista più generale, va considerato che il centro del mondo si sposta continuamente nella storia delle culture. Dopo la seconda guerra mondiale abbiamo assistito, ad esempio, alla crisi degli imperi coloniali, che nel bene e nel male - a mio avviso più nel male che nel bene - avevano fatto sì che l’Europa avesse potuto godere di un lungo indiscusso primato politico, economico e culturale.
Per tornare all’oggi, dobbiamo dire che le caratteristiche del Novecento sembrano interessare anche il nostro secolo, quello nel quale viviamo. Di conseguenza anche la rottura - che è un punto fondamentale, in quanto coinvolge i concetti stessi di relativo e di assoluto - finisce per riguardarci direttamente. Di conseguenza, fuori di ogni metafora di natura spaziale, si potrebbe dire che la perdita del centro significa al tempo stesso la perdita dell’indole assoluta ed esclusiva della nostra cultura, con il relativo corredo di principi, metodi, comportamenti, usi. Sono stati proprio questi principi, infatti, ad aver fatto sì che l’europeo bianco, quindi occidentale, avesse potuto rappresentare, nel passato, la vetta assoluta dell’evoluzione culturale umana. Egli aveva finito per essere, a fronte di tutte le altre culture - invariabilmente inscritte, anche da un punto di vista valutativo, nell’ambito della "mancanza", del sottosviluppo e della marginalità - il detentore della civiltà più alta.
Perdere il centro dunque - occorre ribadirlo - significa, a mio avviso, non credere più all’indole assoluta ed esclusiva della propria cultura. E questo è terribile: è terribile per il vissuto non solo di persone di ragguardevole sentire (artisti, filosofi, pensatori), ma anche di tutti coloro che a queste istanze sono sensibili. L’uomo infatti, da sempre, è riuscito a salvaguardare la propria esistenza - e quindi a sopravvivere - non tanto e non solo in virtù delle invenzioni tecnologiche (vere e proprie protesi che servono per poter sostenere l’esistenza, una esistenza, per altro, che vede gli esseri umani del tutto privi del dispositivo biologico della sopravvivenza, a differenza di quanto accade invece agli animali) quanto in generale in virtù della cultura, di cui la tecnologia è solo una componente tra le altre. E la cultura è stato il nostro dispositivo artificiale di sopravvivenza.
Non a caso, fin da sempre, almeno stando a quanto si può evincere dallo studio delle comunità umane, l’uomo ha circondato i caposaldi della propria cultura con tabù, divieti, prescrizioni. Nelle culture mitico-rituali, ad esempio, i fondamenti dell’appartenenza sono rivelate e garantite da figure potenti, cioè dal sacro: questa provenienza li riteneva inamovibili, assoluti, ovvero non dipendenti da fattori di natura economico-sociale, cioè di natura antropologica e storica. Essi erano assoluti, in quanto sottratti a condizionamenti di qualunque tipo. In questo modo la cultura veniva inchiodata saldamente su se stessa: legittimando i comportamenti, li presentava anche come se fossero ultimamente necessitati. Tutto questo ci fa comprendere come la causa principale dello sbandamento e del disorientamento odierni sia proprio rappresentata dalla perdita del centro. Ma, quando la cultura perde il centro, può solo sopravvivere o, addirittura, si può estinguere.
Professore, se dunque di "rottura" con il passato si tratta (per di più accompagnata dalla perdita di centralità della nostra cultura), ne dovrebbe conseguire, da un punto di vista puramente logico, che ogni forma di ricerca etica (sia essa laica che religiosa) dovrebbe non solo essere rispettosa dell’altrui punto di vista, ma anche disponibile ad accettare il cambiamento imposto dai tempi. O non è così?
A questo punto si impone un chiarimento che in apparenza sembrerebbe investire la sfera filosofica, mentre in realtà riguarda la dimensione più propriamente esistenziale. Quando si enuncia un principio, occorre chiarire bene se esso si riferisce alla sfera della normatività, del "dover essere", oppure a quella del mero esistente (dell’essere reale). Dico questo, perché ho la sensazione che molto spesso l’uomo, per il bisogno di assoluto che gli è proprio, cerchi l’invariante; cerchi qualcosa che gli garantisca, con il fondamento, il senso della propria esistenza, la legittimazione delle proprie credenze, il sostegno per le proprie convinzioni. Di conseguenza, perdere l’invariante significa rischiare l’impermanenza e l’insensatezza della condizione umana. In tale prospettiva la vita cessa di apparire degna di essere vissuta, diventando consumazione e mera sopravvivenza.
Da questo punto di vista, più che legittima è l’aspirazione all’invarianza: da sempre l’uomo occidentale, a partire dai Greci, ha avuto l’orrore del divenire, avendo l’impressione che una vita che viene dal nulla e che va verso il nulla sia nulla. Ed allora il bisogno di trovare un orizzonte di eternità, di permanenza, per l’appunto di invarianza è stato il problema di sempre dell’Occidente, tenuto conto che i Greci, che ci hanno trasmesso le categorie concettuali fondamentali, non avevano una cultura rivelativa. Io ritengo che l’assoluto, infatti, non possa essere costruito dall’uomo: se l’uomo infatti si costruisce un assoluto, allora il fondamento di tutto diviene equivocamente l’uomo stesso. L’assoluto è tale solo se è rivelato.
E tuttavia, precisato che la ricerca dell’invariante è tipica di ogni cultura, occorre saper distinguere tra quella che è una legittima aspirazione umana a determinare e fissare un senso all’esistenza, valido in assoluto, e la realtà storica delle cose. Qui, effettivamente, noi ci accorgiamo che esiste una divaricazione profonda tra ciò che noi vorremmo essere e ciò che siamo.
Ebbene, lo ripeto, costituisce questo un grosso problema, che investe tanto la sfera filosofica quanto quella esistenziale. L’uomo ha sempre avuto bisogno di certezze, di sicurezze, di verità fondate e garantite: solo un imbecille può sottrarsi a questa aspirazione, a questo desiderio irrefrenabile di vivere e di riconoscersi in un vissuto forte. Si pensi che, quando il sacro ha smesso di parlarci – come è accaduto da noi, in questa zona del Mediterraneo Orientale, a cominciare dall’Età del Ferro – l’uomo ha cercato di escogitare degli assoluti terrestri, con i quali ha cercato di sostituire quelli celesti, divenuti silenti.
La storia dell’Occidente potrebbe pure identificarsi proprio con lo sforzo inesausto – sempre perseguito e sempre fallito – di trovare un ancoraggio, un fondamento, una legittimazione a ciò che l’uomo pensa e a ciò che fa. Rinunciare a questa condizione di radicamento è terribile. Essa non è piacevole per nessuno; non lo è, in particolare, per le persone sensibili, che sentono il bisogno – peraltro naturale – di sentirsi giustificate e tutelate.
Purtroppo, una delle caratteristiche fondamentali della modernità è stata proprio quella di essersi allontanata da tali certezze. Ciò è accaduto, ovviamente, non per colpa della modernità in quanto tale, ma per una implosione delle stesse culture moderne. Di qui l’immagine di un Occidente che – a partire dal secolo scorso – vanamente si dibatte nel disperato tentativo di uscire dalla crisi, senza però credere più in una dottrina del fondamento. Questo ha fatto sì che il relativismo sia diventato uno sbocco necessitato, anche se la soluzione del problema potrebbe non essere a tutti gradita. Ad esempio, non ha molto senso, a mio giudizio, partecipare in letizia a questa inedita e inattesa condizione umana: in questo sono in contrasto col pensiero dell’amico Vattimo. Non c’è gaiezza in questa nostra condizione: essa è dettata da uno stato di necessità che, seppure deve essere compreso e vissuto fino in fondo, ci impone anche di distinguere tra un relativismo soddisfatto di sé (ed equivocamente assolutizzato, quale è quello che serpeggia nel pensiero "debole", o in altre posizioni di matrice pragmatistica) e un relativismo epistemologico e morale, improntato a spirito pragmatico in assenza di fondamento.
Dunque, per riassumere, da una parte c’è non uno ma più relativismi, dall’altra c’è una imposizione autoritativa dell’assoluto. Viene a questo punto da chiedersi: quale spazio rimane per un dialogo "vero"?
Io penso che una cultura che ritiene di possedere la verità in sé, una cultura epistemologica o etica di tipo assolutistico, non possa dialogare con nessun’altra. Non può dialogare per il semplice fatto che chi possiede la verità in sé non può che imporla: o con la retorica, o con la forza. Viceversa, quando questo assoluto – pur legittimo sul terreno dell’aspirazione – si cancella, il relativismo (per esempio quello epistemologico od etico), si deve necessariamente aprire alle ragioni degli altri. Cosa significa questo? Oggi, ad esempio, il pensiero scientifico, per quanto possa sembrare strano, è metodologicamente relativistico. Vale a dire che nessuno enuncia più un asserto, una proposizione, senza il dovere di specificare sempre in base a quale principio tale proposizione è stata formulata. C’è insomma, all’interno di tutte le teorie scientifiche un’intima chiusura analitica che rende in sostanza necessaria un’apertura dialogica con gli altri per ragioni integrative.
Se invece si parte dal presupposto di possedere la verità in sé, non ha senso alcuno aprirsi alle ragioni degli altri, perché si sa tutto ciò che si deve sapere. In particolare, se di norma quanto l’uomo raggiunge cognitivamente e moralmente, è vissuto ed è inteso nella convinzione che sia un "in sé" - ovvero che sia un assoluto e che quindi non abbia bisogno di altri supporti onde poter essere legittimato, fondato e compreso – allora è chiaro che l’uomo finirà per chiudersi in se stesso.
Questa apertura dialogica mi sembra essere l’unico aspetto positivo del relativismo. Unico, se però il relativismo è metodologico, Se, al contrario, è assolutistico - se cioè si uniforma a quanto sostenuto da Nietzsche, per il quale tutto è interpretazione, anche nel campo della verità, e gli stessi fatti non esistono - allora si cade addirittura in contraddizione. Si afferma infatti, assolutisticamente, un principio relativistico.
Allora non è sbagliato sostenere che la tolleranza, ieri come oggi, rimane ancora una volta prerogativa esclusiva dei laici.
Assolutamente sì. Non c’è mai stata nessuna cultura, teologicamente fondata, che fosse stata tollerante. Il concetto stesso di tolleranza è un concetto intimamente occidentale e laico, mentre il sacro è nel bene e nel male totalitario per definizione. Il fatto è che noi abbiamo un’idea, in virtù della quale attribuiamo alla coscienza un "io". Ebbene, questa è un’invenzione dell’Occidente: non è vero affatto che tutte le culture abbiano pensato l’uomo come una coscienza che fosse sinonimica di "io". Perché l’ego, a ben guardare bene, significa una coscienza libera ed indipendente, insomma autonoma e, in una certa misura, padrona del proprio destino. Ora, questo tipo di coscienza, nelle culture mitico-rituali, non esiste. Ad esempio, non ha molto senso, antropologicamente parlando, accusare di schiavitù i servi del faraone, che si sentivano uomini solo nella misura in cui servivano il re, servivano il capo o costruivano le piramidi. Essi non erano schiavi: lo sono per noi, perché proiettiamo su di loro le nostre convinzioni, per altro mutuate dai Greci, i quali avevano orrore per la rappresentazione ferina dei propri dei. Prima ancora dei Greci, in Mesopotamia – terra che è alle origini della cultura del Mediterraneo – tra gli uomini e gli animali non c’era il baratro che l’Occidente ha poi immaginato, e anzi gli animali erano addirittura sacralizzati, perché considerati dall’uomo a lui superiori, in quanto più potenti. Non hanno gli animali zanne e artigli, non sono più veloci e più rapidi, non fanno cose che non sono alla portata dell’uomo? Di qui la loro sacralizzazione.
La cosa importante è dunque quella di rendersi conto delle ragioni della perdita della dimensione sacrale, perdita da intendere non in senso moralistico, bensì in quello della mutazione culturale intervenuta all’interno della storia dell’Occidente. Essa ci sfugge infatti nelle sue determinazioni fondamentali: di qui l’importanza del dialogo contrastivo tra la cultura nostra e quelle altrui, viventi o defunte. Solo così è possibile comprendere, nell’attuale condizione di perdita del centro, l’indole storica e antropologica dell’Occidente.
In virtù di questa condizione, noi laici – a ragione tacciati di secolarizzazione da parte dei religiosi della nostra e dell’altrui cultura – abbiamo perduto quelli che sono i connotati eminenti del sacro: la potenza assoluta, ovvero l’idea che l’uomo intanto vive, intanto pensa, intanto crede, intanto agisce in quanto è sostenuto dal sacro. La secolarizzazione, al contrario, è l’idea di vivere una vita di senso lontano dal sacro, non più necessariamente schiacciati su di esso. Ebbene, tale concezione, nata in Occidente, risulta assolutamente incomprensibile alle altre culture e non può essere usata, nemmeno come criterio ermeneutico, per la loro comprensione.
Partendo da quest’ultima affermazione le chiedo: ha senso parlare, oggi, di ricerca di valori forti, intesi in senso laico, se da un punto di vista relativo i valori non possono che essere deboli?
L’uomo può ricercare e affermare tutto quello che vuole, a patto però di fondarlo, di giustificarlo. Ebbene, oggi io non trovo fondazione o giustificazione di sorta. L’aspirazione legittima a qualcosa di forte fa parte delle ineludibili ragioni esistenziali alle quali prima facevo riferimento, in quanto il bisogno assolutamente razionale dell’uomo di ancorarsi saldamente ad una realtà piena di senso c’è sempre stato e probabilmente sempre ci sarà.
E se tali valori fossero ricavati dalla storia? Non potrebbe proprio questa costituire un campo ideale, all’interno del quale attingere valori forti, magari quelli trasmessici dalla Resistenza antifascista, dalla lotta di Liberazione, dal Risorgimento?
Io penso che tutto ci può supportare, onde poter alimentare questo desiderio e questo sogno. Tale aspirazione è a tal punto giustificata da farmi ritenere che sia espressione di leggerezza l’idea che si possa vivere senza cercare, andandolo a scovare dovunque si possa trovare, un fondamento alla nostra esistenza. Però io mi diletto di filosofia, ed in filosofia - se per filosofia si intende naturalmente una conoscenza dei principi e dei fondamenti inerenti all’esistenza, e dunque al senso dell’essere -, non si può perdere di vista, stando almeno a quella che è stata la storia della filosofia in Occidente, quello che è sempre stato il vero problema: ovvero la ricerca di una verità assoluta, di un’etica fondata su ragioni incontrovertibili.
Di qui discende la necessità di affrontare un’altra complessa questione. Molti ritengono che si possa vivere e pensare anche pragmaticamente, rassegnandosi ad una esistenza priva di alcun fondamento. Se così è, allora è chiaro che non resta che il pragma puro, la prassi. Questa dà luogo ad un comportamento in virtù del quale l’uomo, di volta in volta, fa delle scelte senza appellarsi a principi, mostrandosi sensibile solo a verificare che esse risultino funzionali alla situazione nella quale concretamente si trova a vivere. A questo comportamento per altro, è inutile negarlo, si uniforma, lo si voglia o no, la maggior parte di noi. Qual è allora la difficoltà di approdare ad un valore assoluto, che oggi si tende a respingere e che gli accademici, ovvero gli addetti ai lavori, tendono a cancellare? La difficoltà risiede nel fatto che il fondamento è qualcosa "a partire dal quale", "grazie al quale", "in ragione del quale" qualcosa può essere pensata o fatta. Non si va verso il fondamento: o si sta da sempre nel fondamento, o esso è inattingibile. È come nel caso della felicità: non si va verso la felicità, ci si sta dentro, magari anche senza accorgersene, ma quando comincia a subentrare la riflessione e si parla di essa, si è fuori dalla felicità. Quando, al contrario, comincia a subentrare la riflessione, allora si compie quel passo indietro che allontana l’uomo dalla felicità, intesa tanto come fondamento quanto come verità.
E dunque, ed è così da sempre, o si sta dentro a questi saperi forti, oppure essi non sono attingibili da noi. Rifletterci sopra è il sintomo inequivocabile che essi stanno fuori della nostra portata. L’idea che un fondamento possa essere accessibile e raggiungibile per l’uomo è fallace: quel fondamento, in realtà, è frutto del cammino di ricerca del soggetto e della sua costruzione, che datano con il pensiero di Parmenide.
Il fondamento, insomma, può essere solo frutto di una rivelazione, quindi può solo rivelarsi e darsi. Dice la Bibbia: "Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio al di fuori di me". Ebbene, fuori di questo fondamento, che non ci appartiene più, come si fa a trovare un assoluto? Appena l’uomo tocca l’assoluto, questo cessa di essere tale.
A questo punto però mi viene da chiederle: se uno sta dentro quella che un tempo veniva chiamata una "classe" sociale, od anche, consapevolmente, dentro un mondo in larga prevalenza popolato da poveri, da oppressi e da emarginati, la condivisione di tale condizione (con il corrispondente impegno di lotta per la giustizia, per l’emancipazione sociale, per la conquista dei diritti, tanto in Europa quanto nei continenti più poveri, primo fra tutti l’Africa) non dovrebbe essa stessa essere generatrice di valori che, anche se non assoluti, sono pur sempre improntati ad un relativismo "alto"?
Prassi: questo io lo inquadrerei nell’orizzonte della prassi. Di una prassi sociale, di una prassi che si giustifica con il fatto che non si vive bene da soli. Del resto, non è mai successo che si sia apprezzata la vita in solitudine. Questo discorso, però, più che con la filosofia, ha a che fare con le ragioni delle scienze umane: la sociologia, l’antropologia, la psicologia sociale. Queste discipline, se non danno dei valori, suggeriscono però l’opportunità (o meno) di certe prassi, ivi comprese quelle relative alla fame nel mondo e alla globalizzazione.
Riguardo a quest’ultima, per altro, io mi dichiaro contrario non per ragioni etiche, bensì per ragioni antropologiche e culturali. Infatti, piuttosto che appellarmi ad un assoluto, preferisco appellarmi alla cultura, intesa nella sua molteplicità manifestativa. È questa la vera ricchezza dell’uomo. Per esempio, ci sono certi assoluti che vengono spacciati come tali, mentre tali non sono: mi riferisco al principio della democrazia. Ebbene, Montesquieu diceva che la democrazia non si può e non si deve esportare. Perché si deve andare ad imporre uno stile comunitario, estraneo ad altri popoli -magari quelli che hanno le chefferie -, che hanno le loro forme di governo rappresentativo nei capotribù o nei capoclan? In base a quali principi? Ecco l’assolutezza posticcia, ipocrita, che alla fine viene contrabbandata per un "valore".
Insomma, il fatto che la scienza dica che una certa cosa debba essere fatta in un certo modo non significa che quella indicazione debba essere trasformata in un dover essere. La scienza non dà la misura dei valori: parla dell’essere, non del dover essere. Oggi però tutto questo è limitato e parziale: noi siamo in una condizione di debolezza culturale, che è fonte di non poco disagio per le persone sensibili.
Caro Professore, sappiamo che i suoi sempre vivi interessi per la filosofia (soprattutto orientati verso la moderna epistemologia), non sono mai andati disgiunti dallo studio del mito antico, di cui Ella è sempre stato uno studioso sensibile e raffinassimo. Quale mito le sembra meglio incarnare l’odierna condizione umana?
La cosa potrebbe sembrare stravagante, ma io sono convinto che la storia dell’Occidente comincia proprio con l’eclisse dei miti. Non arrivo ovviamente al punto di sostenere che i Greci non credessero nei loro miti, come taluni (studiosi anche famosi) sono arrivati pur a ritenere. Però il pensiero del sospetto e della critica – prerogativa tipica della filosofia occidentale, che, non dimentichiamolo, è una invenzione greca: di matrice letteraria, cittadina, certamente non rurale, addirittura delle colonie – mi suggerisce la considerazione che l’Occidente si sia costruito senza rivelazione, malgrado l’ibridazione con il cristianesimo, che è basato su di una rivelazione sacra. Noi abbiamo però una serie di miti; più che di miti, dovremmo parlare di racconti che si assumono come dei paradigmi. Ebbene, il più delle volte mi sono accorto – cioè tutte le volte che ho toccato questi miti, da quello di Prometeo a quello di Ulisse – che alla base di essi c’era sempre un fraintendimento ermeneutico non marginale.
Prendiamo il caso di Ulisse. Come è noto, l’eroe omerico è stato da sempre considerato come il prototipo dell’europeo occidentale, cioè di quell’Europa che è "il continente dell’avventura", secondo una bella intuizione di Vittorio Mathieu. Ebbene, questo non è affatto vero: a pensarci bene, Ulisse era un eroe tragico travolto dal fato, che voleva solo tornare a casa per ricongiungersi alla moglie. Ora, francamente, trasformare Ulisse in un avventuriero è una forzatura, se per avventura intendiamo l’andare incontro ad un futuro (adventurus) che occorre saper progettare e, in qualche modo condizionare e costruire. È questa la riprova di un fraintendimento tutto occidentale, così come, del resto, accade anche nel caso di Prometeo. Questi è in realtà una figura della Grande Madre: era un Titano che amava gli uomini ed aveva addirittura connotati comportamentali femminili. Non è la figura che, successivamente, l’ermeneutica occidentale ha voluto tramandare.
Noi occidentali abbiamo in sostanza una caratteristica che altri popoli non hanno mostrato di possedere: quella di progettarci nello spazio e nel tempo, di pensare di poterci sottrarre al fato, di costruirci il destino con le nostre stesse mani. Per questo siamo dilagati sull’intero pianeta, nel bene e nel male. Abbiamo costruito il nostro futuro plasmando lo spazio, che di volta in volta occupavamo, a nostra immagine e somiglianza, distruggendo però anche ogni possibili alternativa esistenziale culturale. Ebbene, oggi, l’apertura alle altre culture ci è forse diventata ancor più necessaria, perché altrimenti non riusciremo a superare la crisi; non si può continuare a fingere di possedere gli strumenti del nostro futuro, quando non facciamo altro che continuare ad attingere ad un patrimonio concettuale e culturale che, per l’appunto, non ci riempie più di senso come prima.
Quindi l’odierna condizione dell’Occidente è analoga a quella rappresentata, paradigmaticamente, dai mitici eroi Dedalo e Icaro?
Beh sì, certamente. La nostra storia, quella mediterranea, è cominciata nel 3000 a. C., tra il Tigri e l’Eufrate, e si è poi sviluppata progressivamente, dopo essere passata attraverso la crisi dell’Età del Ferro. Essa è divenuta una cultura planetaria. E tuttavia – se ci si volge indietro – non si può certamente dire di essere orgogliosi di questa storia.
Se dunque per mito si intende un paradigma, allora certamente molti sono i miti della nostra storia ai quali, di volta in volta, possiamo rifarci. Uno di questi è certamente quello cristiano: quello di una umanità che ama e che non si fa guerre. Questo mito, innestandosi nel tronco della grande cultura filosofica dello stoicismo – inviterei tutti a rileggere I colloqui con se stesso di Marco Aurelio –, ha dato luogo ad una concezione dell’uomo che ancora oggi è talmente forte da risultare difficilmente superabile.
E tuttavia, all’orizzonte, sono comparsi segnali significativi di segno opposto, come dimostra l’attualissima questione del post-human. Ovvero la visione in virtù della quale l’uomo, ormai non più figlio della paideia occidentale, sembra piuttosto appartenere ad una dimensione "altra": quella in cui l’inorganico e l’artificiale potrebbero farla da padroni sulla Terra.
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Domenico Conci è ordinario di Filosofia Teoretica alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Arezzo (Università degli Studi di Siena) e docente di Antropologia Culturale all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli
(su "Tempi Moderni" Quindicinale di politica scolastica e cultura professionale, n.11, 2005).