Il Natale e l'obbligo della felicità

A Lima, negli ultimi anni, durante la settimana di Natale la percentuale dei suicidi aumenta del
35%. Le ragioni — dice sul Comercio , il più importante quotidiano peruviano, il direttore
dell’Istituto Guestalt, Manuel Saravia Oliver — possono essere fin troppo ovvie. Natale è una
celebrazione degli affetti familiari, di una raccolta felicità, e chi se ne sente privo o povero ne soffre
certo sempre, ma particolarmente in quei giorni. Giorni in cui si ostenta quel calore che gli manca e
la cui mancanza si fa più acuta e talora insostenibile.

Quel 35 per cento in più di morti disperati pesa come un dies irae. Chi ha detto che il Natale debba
essere un karaoke della felicità, in cui Minnie e Topolino si vogliono eternamente bene, le famiglie
sono sempre unite e i buoni sono anche contenti, tutte cose false sia in quella settimana sia nelle
altre cinquantuno dell’anno? Il Natale ricorda la nascita di un bambino venuto al mondo nel più
grande anche se finora fallito tentativo di portare la pace agli uomini — fallito non per colpa sua,
ma perché la pace doveva essere portata, come sta scritto, agli uomini di buona volontà e di questi
ultimi se ne vedono pochi.
Quel neonato di Betlemme è inoltre destinato, nella sua opera di
redenzione, a morire fra tremendi dolori fisici e morali di una morte infame, sulla croce; non
promette la felicità, né in pillole né in panettoni, tant'è vero che, vedendo come va il mondo, quel
bambino, cresciuto, dirà di essere venuto a portare non la pace, ma la spada.
Non è un caso che, a
Natale, si pensi sempre meno a lui, sostituito dal faccione paonazzo e svampito di Babbo Natale,
giuliva e stolida caricatura della felicità.

Quest’ultima non sembra più essere uno struggente e lacerante desiderio del cuore, bensì un obbligo
sociale. Bisogna essere felici; altrimenti, che vergogna.
Ma perché la felicità dev’essere come la
carta di credito in certi Paesi, nei quali chi non ce l’ha è quasi un reietto, un asociale da disprezzare
o tutt’al più commiserare? Tra tante luminarie natalizie, felicità al neon, chi se ne sente escluso può
sentirsi indegno, come quel personaggio di Kafka che si risveglia trasformato in scarafaggio, e
perdere la stima di sé fino al punto di uscir di scena.
La felicità è una nostalgia, può bruciare come una ferita anche quando c’è, come un amore che ci
piomba addosso o come l’incanto della «bella giornata» di cui scrive La Capria, la cui bellezza
ferisce il cuore a morte, perché fa sentire tutto quello che ci manca.
Non è un rango o un ruolo che
si può avere, ma è un mare che ci avvolge; non possiamo avere la felicità, ma essere nella felicità,
come in una risata insieme a un figlio che ci fa sentire un’armonia profonda o in un’ora magica e
semplice in cui la vita assomiglia al vino che esce da una bottiglia stappata con un amico.
Ogni brandello di gioia e anche di minimo e fugace piacere va afferrato e tenuto stretto più che si
può, perché non siamo al mondo per fare stupide, spesso torbide rinunce; ogni dolore va lenito il più
possibile e un analgesico che fa sparire un forte mal di testa libera — e dunque eleva — lo spirito
non meno di una grande poesia che lo incanta.

Ma non abbiamo il dovere di essere felici, belli e in forma; la vita è certo anche stupida, come
sapevano Shakespeare o Flaubert, ma comunque meno dell’Isola dei famosi. Dovremmo lamentarci
o addirittura vergognarci quando ci tocca il grigiore dei giorni, la solitudine, la rancorosa stanchezza
di un amore che sopravvive a se stesso, la sconfitta, il decadimento fisico e intellettuale, l’invitabile
malinteso fra noi e gli altri e pure fra noi e noi stessi?
Non è il caso di assumere una posa stoica di
eroica forza d’animo, ma piuttosto di arrangiarsi come si può, scansando se possibile i colpi, senza
recriminare e senza far troppe domande al tempo che passa, aiutandosi con tutte le protesi fisiche e
morali di cui c’è bisogno e cercando di barare un po’ col destino.
Anche a Natale, come in ogni altro giorno dell'anno. Può essere triste — non sempre — essere soli,
ma questo vale per ogni giorno, come l’aver fame che non è mai allegro. L’anno scorso, in questo
periodo, mi è capitato di leggere, nel giornaletto di un liceo di Schio, l’articolo di una ragazzina,
Giulia Baldassarre, che protestava contro lo sciagurato dovere di fare regali di Natale, che rende
quella settimana più affannosa di ogni altra. Quell’articolo si poneva la stessa domanda posta giorni
fa sul Comercio di Lima da un giornalista peruviano, Adolfo Bazán Coquis, che non credo legga la
stampa scolastica di Schio. A Natale c’è un unico «cumpleañero», uno solo di cui festeggiare il compleanno: quel bambino di Betlemme.

È a lui che andrebbero fatti i regali, non ad altri — se non
a quegli «ultimi» della terra con cui lui si è esplicitamente identificato
. E potremmo imitare, anche
per nostro sollievo, la sua festa di Natale, l’unica vera. Nella grotta di Betlemme, quella notte, non
ci sono suoceri, prozii, cognati, cugini di nipoti acquisiti; tutto quel clan che il 25 dicembre si ha il
dovere di invitare e frequentare,
anche se in esso ci sono, accanto a persone amate, persone del tutto
estranee e alle quali siamo estranei, persone le quali negli altri 364 giorni dell’anno per noi
sostanzialmente non esistono e per le quali non esistiamo. Nella o davanti alla grotta di Betlemme,
invece, quella notte c’è solo chi ha voluto venire, senza averne l’obbligo e senza averlo deciso né
saputo prima, come i pastori. Ci sono un bue, un asino, verosimilmente alcune pecore; animali
alieni da quei nascosti livori, ambivalentemente mescolati agli affetti, spesso latenti — o esplodenti
— nelle grandi famiglie riunite a Natale.

Come sarà stato, in quella grotta, il pranzo di Natale? Niente cena di magro, la vigilia; nessuna
ipocrisia di far penitenza rinunciando per un giorno alla carne e rimpinzandosi di pesci prelibati. E
immaginabile che i pastori abbiamo portato del latte, formaggi, frutta, uova, forse un po’ di vino, di
quel vino col quale, non molti anni dopo, quel neonato compirà il suo primo miracolo. Mangiare e
bere insieme in semplicità, senza menù obbligato ma con amore delle buone cose che allietano il
palato ed il cuore, è far festa alla vita e a sé stessi — e ogni occasione è buona per farlo, ogni giorno dell’anno.

È difficile invece immaginare Maria, Giuseppe e i loro nuovi amici intorpiditi da quelle
succulente e mortali portate dei pranzi di Natale che non è lecito rifiutare neanche quando la sazietà,
la sonnolenza e la greve digestione danno l’impressione che vita mastichi e macini per la morte.
La Chiesa tuona contro la secolarizzazione, ma — forse ritenendo di dover patteggiare con la sua
potenza crescente — quasi sempre esita a dire troppo apertamente che col Natale, con la nascita di
Cristo, il nostro Natale non c’entra proprio niente e somiglia piuttosto alla festa delle zucche di
Halloween.
Ma per una zucca vuota, almeno, non si è mai suicidato nessuno.

Claudio Magris     Corriere della Sera  21 dicembre 2009