Natale e Hanukkah


…. E la gloria del Signore avvolse i pastori di una grande luce… (Luca 2,9). Da quella luce mi
sono tante volte, gioiosamente, lasciato travolgere anch’io, ma quest’anno non ci riesco. Troppe
ombre inquiete e inquietanti mi sembrano addensarsi sui giorni che stiamo vivendo; e non sono
soltanto le ombre della crisi economica, che martirizza tante famiglie.

Questo è il Natale felice della P2: Berlusconi, seguendo il vangelo di Gelli e il proprio sfrenato narcisismo, sente possibile ormai
trasformarsi nel Lider Maximo di una democradura e ne dichiara l’intento.
È il Natale felice di
un’arroganza papista che pretende di definire persino il significato dell’identità di genere mentre
senza misericordia distoglie gli occhi dalle crudeli persecuzioni degli omosessuali in tante parti del
mondo. È il Natale felice di un clericalismo che impone al governo italiano di revocare i pur esigui
tagli al finanziamento delle scuole private e ottiene pronta esecuzione del suo volere. È il Natale
felice di cattolici che si credono fedelissimi al Cristo perché vanno alla messa di mezzanotte ma non
sentono lo scandalo di un milione di famiglie italiane che non hanno soldi a sufficienza per
mangiare e riscaldarsi, mentre il 10 per 100 della popolazione si divide il 50 per 100 della ricchezza
nazionale. È il Natale felice dei liberisti, atei devoti che ottengono da Benedetto XVI patenti di
nobiltà. È un Natale in cui nelle parrocchie del Nord, salvo belle eccezioni, si tace sul razzismo e
nelle nostre “Betlemme” -paesi e città – Maria e Giuseppe invece che casa trovano ostilità e
disprezzo perché, extracomunitari, “non sono dei nostri”. E’ un Natale in cui a molti vescovi
(compreso quello di Roma) i problemi del sesso, dei feti e della condanna a una “vita” vegetativa
sembrano più importanti delle guerre, almeno a giudicare dalla frequenza e dalla severità dei loro
interventi.


In questa festa della Natività siamo costretti a ripensare ai morti poiché i vivi appaiono pochissimo
vitali, o peggio
. Il trentesimo anniversario della scomparsa di papa Giovanni ha fatto ricordare con
nostalgia a molti di noi la sua pastorale della tenerezza, il magistero della misericordia, la denunzia
della irrazionalità delle guerre e l’assoluta necessità della pace, il riconoscimento della suprema
importanza dei poveri come requisito indispensabile della autenticità di una Chiesa evangelica.
Abbiamo ricordato con commozione che il suo Concilio ci sospinse verso la coraggiosa ricerca di
un nuovo linguaggio della fede, il riconoscimento delle competenze dei laici nelle questioni terrene,
la libertà della Chiesa da ogni sudditanza ideologica, economica, culturale e sociale. Ci diede la
gioia di un cammino non frenato dalle grida di quelli che egli definì “profeti di sventura”: quelli
che allora volevano e oggi vorrebbero il cattolicesimo trasformato in fortezza e in sultanato,
macchina erogatrice di voti e idrovora di privilegi, forza conservatrice a difesa delle oligarchie.
Sì, siamo spinti a cercare coraggio nel passato per tenere vive le nostre speranze. Basta vedere come
centinaia di blog e di siti riprendono e diffondono, in questi giorni, il testo dell’intervista di Eugenio
Scalfari a Enrico Berlinguer sulla corruzione dei partiti diventati strutture di poteri oligarchici e di
interessi personali. I “ragazzi dell’Onda” scoprono le profezie laiche di Calamandrei e cominciano
ad avvicinarsi a quelle di Gramsci e di Gobetti.
È un fatto di suprema importanza che alle nostre
spalle vi siano maestri e lezioni che hanno ancora evidente valore. Ma è ben triste vedere tanta parte
della cultura d’oggi avvoltolarsi nelle dispute più astratte, lontanissime dai problemi del pianeta.
I
maestri di ieri non possono bastarci, la giustizia, la libertà, la verità devono essere costantemente
ridefinite per rispondere alle sfide che la storia ci pone. Quando in molti pensavamo che la
adorazione del Mercato, negando la dignità di popoli interi, non potesse modellare la Terra a proprio
piacimento, i suoi adoratori e missionari ci rispondevano con un nome di donna, come quelli che i
meteorologi danno agli uragani: TINA. Sorridendo, ci respingevano nei sotterranei dell’illusione e
dell’inermità: There Is No Alternative, non c’è alternativa. Cercano di farcelo credere ancora,
mentre la smodata fame del capitalismo invoca adesso aiuti e partecipazioni statali.
Questo è un Natale triste per i giovani che vanno acquistando la piena comprensione del precario
destino al quale il liberismo e l’inerzia politica dei genitori (e dei nonni!) li destina. O forse più che
triste, questo Natale, per loro è un momento di ripensamento perché dopo le rivolte della banlieu
parigina e i fatti di Atene molti studenti e lavoratori sentono che rivendicare i propri diritti è una
lotta necessaria che richiede creatività e capacità di autodisciplina. La speranza è che questa lotta sia
dura ma abbia, come sinora in Italia è avvenuto, i colori della nonviolenza.


Mi accorgo che continuo a parlare di speranza e ne sono contento. La speranza è un sentimento che
spesso mi costringe a essere diverso da come vorrei: più duro nell’indignazione e più attento ai semi
di libertà e di giustizia che il vento della storia continua a spargere nei nostri giorni; dolorante per le
continue sconfitte che il Potere infligge agli uomini e alle donne di buona volontà e profondamente
convinto che nessuna di queste sconfitte è definitiva; appassionato ricercatore di testimonianze di
quella piccola gioia cui anni fa dedicò uno splendido articolo Lucio Lombardo Radice: il sentimento
che nasce dalla consapevolezza di avere compiuto il proprio dovere.

Se ciascuno di noi sapesse tenere un’anagrafe di questi testimoni e usarla per rinsaldare la propria ansia di giustizia e di libertà,
se sapessimo testardamente cercare di tessere reti solidali, daremmo luogo a una società ben diversa
da quella fondata sulla paura che oggi sembra prevalere. Ma bisogna che impariamo a uscire dalle
nostre case per dare vita a laboratori di ideazione e di azione. Io penso che i luoghi privilegiati per
questa ripresa etica prima ancora che politica siano la scuola e l’eguaglianza fra cittadini, le
cosiddette politiche sociali.
Non si arriva alla mia età senza avere vissuto Natali luminosi e Natali tristi. Nel dirlo mi viene
subito in mente quello di quando avevo cinque anni e il volto sfigurato da un “incidente” chirurgico;
i 25 dicembre degli anni 1940 e ’41, in cui mio padre era in guerra e noi non avevamo sue notizie;
quello del 1956 in cui il giornale presso il quale lavoravo era fallito e io potei regalare a mia moglie
soltanto sei marron-glaceés, e via via sino a quello del 2003 che trascorsi in ospedale per una
frattura… È a questo elenco che aggiungerò il Natale del 2008, benché io possa dirmi felice nella
mia privacy. La grande luce della Notte Santa non mi sembra diffondersi sulla Terra che amo tanto
appassionatamente.
La liturgia che celebrerò nel mio cuore sarà piuttosto quella della festa ebraica di Hanukkah, che va
componendosi proprio in questi giorni. È una festa che parla di una speranza piccolissima e insieme
audace. Una leggenda racconta che quando, nel secondo secolo a.C., gli ebrei riuscirono a liberarsi
del giogo ellenico e a tornare liberamente al centro simbolico della fede, il Tempio, per poterlo
liberare dalle tracce delle nefandezze che i pagani vi avevano compiuto, bisognava che per otto
giorni ardessero i lumi della menorah, il candelabro a sette braccia. Dell’olio consacrato che doveva
alimentare le luci si trovò, tuttavia, soltanto una piccola ampolla che poteva bastare per poche ore.
Le fiammelle furono accese, e il Signore le fece ardere per dieci giorni mentre veniva raccolto l’olio
necessario. Come tutte le imprese di liberazione degli oppressi, questa storia mi incanta; ma a
rendermi più suggestiva la festa e a farmene sentire convocato è soprattutto, al di là della fede che
vi si esprime, la liturgia con la quale la si celebra: ogni giorno, per sette giorni, si accende una
candela. È come se si facesse quel poco che si può, si desse vita a una luce piccolina, e però,
testardamente, un po’ alla volta, quella luce venisse alimentata sino a vincere del tutto le tenebre.
Così immagino la mia speranza. La vostra speranza, oso dire.

Parlando di Hanukkah, mi viene in mente l’ultimo libro tradotto in italiano di quel grandissimo
scrittore che è Abraham B. Yehoshua. È una storia israeliana che parla di un paese immerso in una
tragedia, quella di una perpetua guerra strisciante che di quando in quando si impenna in
combattimenti o in atti di terrorismo. Nelle trombe degli ascensori di modernissimi grattacieli
risuonano singhiozzi e lamenti, forse perché troppi morti chiedono giustizia o forse perché
lavoratori sfruttati hanno inserito volontariamente brecce nei muri; i bambini, il sabato, vanno a
trovare i padri negli accampamenti militari; l’odore più diffuso è quello del lubrificante per la
manutenzione delle armi... In un paese così anche le parole impazziscono: e “fuoco amico” vuol
dire che un soldato è stato abbattuto, per tragico errore, dai suoi commilitoni. Se poi a essere ucciso
è un giovane che cercava in qualche modo, di rendersi meno odioso alla popolazione “occupata” ,
allora si può comprendere perché suo padre abbandoni Israele e vada a vivere in Africa, di questo
solo desideroso: di non vedere più nessun ebreo, neppure i parenti, neppure i giornali, neppure un
oggetto ebraico, neppure le candeline per le feste di hanukkah.
Così una festa di speranza illumina ancora una volta una situazione che è come uno squarcio nel
ventre della Madre Terra. Tre generazioni di bambini cresciuti nell’odio, è possibile che noi
guardiamo tacendo?

 

Un caro saluto da  Ettore Masina           in “Lettera” n. 137 del dicembre 2008