Il Muro
dell'Occidente contro i poveri del mondo
Le recenti parole del Papa di compassione per le tragedie nelle quali sempre più
spesso si
concludono i tentativi degli immigranti di approdare alle nostre coste e di
appello ai paesi
occidentali affinché mettano in atto politiche di soccorso sono un invito a
criticare le scelte di quei
governi europei che come il nostro hanno imboccato la strada della
criminalizzazione
dell'immigrazione indesiderata (di quelle persone che provengono dai paesi più
diseredati). Parole
che dovrebbero stimolare i democratici a interrogarsi sulle contraddizioni delle
politiche di chiusura
delle frontiere e la necessità di prestare al fenomeno migratorio una maggiore e
più qualificata
attenzione. Queste migrazioni bibliche – il fenomeno forse più drammatico del
nuovo secolo –
mettono a nudo le tensioni nelle quali si dibattono la cultura liberale e quella
democratica. Gli
immigrati, senza dubbio quelli che aspirano a un lavoro e una vita dignitosa,
prendono sul serio la
promessa del liberalismo sulla quale le società che ora li respingono sono
sorte: l'impegno
individuale come condizione per la realizzazione sociale.
Le migrazioni transnazionali e l'interdipendenza globale sfidano il liberalismo
dei paesi occidentali
che si fa via via più nazionale e meno universalistico. Sfidano inoltre la
sovranità e i confini degli
stati, che ora vengono pattugliati non soltanto con leggi e polizia ma anche con
una vergognosa
ideologia xenofobica e razzista. La frizione tra universalismo e cultura morale
dell'accoglienza,
valori che la democrazia e il liberalismo coltivano naturalmente, e identità
nazionalistica può avere
effetti potenzialmente esplosivi se è vero che un continente come l'Europa, che
aspira a diventare il
faro della moralità cosmopolita e dei valori democratici, si fa quasi fortezza
per difendere la propria
civilizzazione contro i boat people, disperati che cercano di sopravvivere
sfuggendo alla fame e agli
abusi.
Le migrazioni mettono a nudo due problemi, uno dei quali chiama in causa
questioni di giustizia
distributiva e l'altro questioni di giustizia politica. Circa il primo problema,
è un fatto che nessun
codice internazionale e nessuna convenzione accorda a questi disperati lo status
di rifugiati. I paesi
democratici non riconoscono l'indigenza come forma di persecuzione che necessita
di un impegno
concreto, non soltanto morale, per attuare politiche di riequilibrio economico e
di giustizia
redistributiva a livello globale. Infine, è altresì vero che la definizione
minimalista della democrazia
alla quale ufficialmente si attengono le democrazie occidentali è cieca nei
confronti di regimi che
sono di fatto oligarchie rapaci anche se formalmente praticano elezioni
politiche. In queste
circostanze, ha scritto lo studioso australiano Robert Goodin, è inevitabile che
fino a quando i beni
non circoleranno equamente, saranno le persone a dover circolare per andarli a
cercare laddove si
trovano in abbondanza, poiché ogni persona ha il diritto di fare tutto quanto è
in suo potere per
poter sopravvivere. L'unica soluzione a questa che è una vera tragedia
umanitaria è appunto che i
paesi del primo mondo adottino politiche globali di giustizia redistributiva.
Diversamente non
possono stupirsi di essere la meta obbligata alla quale tendono tanti disperati
della terra.
Ma c'è un problema ulteriore, questa volta relativo alle conseguenze che le
politiche nazionalistiche
possono avere sullo stato della nostra democrazia. Più che di un problema si
tratta in effetti di un
rischio, il quale non viene purtroppo messo in luce come dovrebbe: il rischio è
che per perseguire
politiche radicali di esclusione, e perfino di criminalizzazione, i paesi
democratici finiscano
fatalmente per fagocitare inoltre una cultura della violenza e della
discriminazione che mette a repentaglio il loro stesso ordine politico.
È per questo importante la proposta di Walter Veltroni di concedere il
voto amministrativo agli immigrati residenti perché fa del tema
dell'immigrazione un
capitolo del problema dell'integrazione politica, non più solo della sicurezza.
È chiaro che nessun paese, nemmeno un paese autoritario, riesce a chiudere
ermeticamente le
proprie frontiere. Le frontiere sono di fatto sempre porose. La differenza fra
regimi politici dipende
da come la porosità viene ostacolata e regolata. Contrariamente ai paesi
autoritari che non hanno
grandi problemi a criminalizzare l'entrata (e molto spesso anche l'uscita) a
loro discrezione, i paesi
democratici non possono con la stessa arbitraria leggerezza adottare leggi
liberticide per escludere
(le pressioni dell'opposizione parlamentare e della Ue hanno indotto il governo
italiano a moderare
le norme sulla schedatura dei rom e degli extracomunitari). La democraticità
degli stati democratici
viaggia sul crinale di questa insanabile contraddizione, perché più un paese
democratico irrigidisce
le proprie politiche di accoglienza, più esso compromette i suoi propri principi
e quindi anche il
grado di libertà dei suoi cittadini. Come a dire che l'illibertà verso gli altri
ricade su di noi perché ci
rende immancabilmente illiberali verso noi stessi. Le politiche repressive
creano più problemi di
quanti non ne risolvono, anche se la loro spettacolarità può avere consenso
d'opinione. Un progetto
politico che si definisca democratico dovrebbe avere ben chiara questa
contraddizione e
comprendere che le strategie di giustizia redistributiva a livello globale e
quelle di integrazione
politica a livello nazionale sono la strada obbligata se vogliamo difendere il
tenore delle nostre
democrazie.
Ma l'appello del Papa all'Europa affinché accolga gli "irregolari" suggerisce
un'ulteriore riflessione
che si riallaccia a quanto ha scritto Ezio Mauro su questo giornale a proposito
della funzione
precettistica della chiesa. Sembra che la politica non abbia la forza di
iniziare autonomamente un
discorso di giustizia su questioni cruciali e controverse. Sembra che solo la
cultura religiosa abbia il
vocabolario che consenta a tutti noi di parlare di giustizia e di dignità.
Eppure la cultura politica,
quella democratica e liberale, ha principi, valori e parole capaci a sviluppare
argomenti di giustizia
altrettanto cogenti e forti. Il fatto è che chi opera nella sfera politica non
usa questo linguaggio con altrettanta forza e autorevolezza di chi opera nella
sfera religiosa.
È forse una sbagliata nozione di opportunità politica più che la
povertà del linguaggio politico ad entrare in gioco quando la politica
resta muta o timida; l'idea che per parlare la politica abbia prima bisogno di
sapere da quale parte
sta l'opinione della maggioranza per seguirla o non scontentarla. Ma la politica
è creazione di
opinione non addomesticata adesione all'opinione corrente; è capacità e coraggio
di influire sul
giudizio politico dei cittadini, di operare affinché si determinino cambiamenti
nell'opinione. Ecco
perché insieme ai diritti di libertà e alla giustizia, dietro alla politica
delle frontiere e
dell'integrazione c'è in gioco la dignità della politica.
Nadia Urbinati la Repubblica 6 settembre
2008