Il mondo reale e quello virtuale
(il non discorso di papa Ratzinger alla Sapienza)
In una situazione in cui i fiancheggiatori (più dei protagonisti) sembrano dare il peggio di sé e nella
quale il bandolo del discorso è tenuto in mano dalla strumentalizzazione politica e
dall’amplificazione mediatica, è vano sperare di riflettere con pacatezza. Se lo si cerca ugualmente
di fare, l’opzione va ascritta al registro della dignità intellettuale, non a quello dell’utilità. Ciò vale
anche per quanto è avvenuto (e sta avvenendo) a proposito della lectio magistralis che Benedetto
XVI avrebbe dovuto tenere alla Sapienza (reperibile in www.vatican.va nella sezione Discorsi dopo
aver cliccato l’icona di Benedetto XVI).
Pare un segno del destino che due tra gli avvenimenti dotati di maggior eco tra tutti gli atti connessi
al pontificato di papa Ratzinger siano collegati all’ambiente accademico. I motivi del clamore sono
però opposti: nel primo caso le reazioni sono state suscitate da parole pronunciate, nel secondo da
un discorso non detto. Questa asimmetria toglie inevitabilmente mordente al confronto tra i due
testi. Inoltre Ratisbona, a differenza di Roma, resterà un punto di svolta di un pontificato, da allora
in poi messo in uno stato di perenne ricattabilità da parte dell’islam, mentre Roma avrà
ripercussioni più sull’Italia che sulla S. Sede. Tuttavia l’operazione di leggere sinotticamente i due
discorsi, poco significativa per conoscere il mondo real-virtuale che caratterizza i nostri giorni, resta
istruttiva per comprendere il pensiero di Benedetto XVI.
Il raffronto tra le due circostanze è stato evocato da Ratzinger stesso nel suo discorso preparato per
l’università di Roma e diffuso nonostante la rinuncia. La lectio simulacro, resa nota soprattutto per
dimostrare il rispetto da essa espresso nei confronti della laicità, attesta in modo significativo il
sentire e il pensare del suo autore: l’area accademica gli è di casa e sono i suoi umori a far emergere
in maniera più scoperta i convincimenti di fondo del papa. Ratzinger ha vissuto (e in parte ancora
vive) l’insegnamento accademico come la parte più qualificante della propria missione.
Il Papa professore
Nella cara Regensburg, il professore Joseph Ratzinger, oltre che come papa, dichiara di aver parlato
come ex docente; a Roma, nella sua diocesi, doveva invece prendere la parola solo come pastore. Il
filo del suo discorso si dipana proprio a partire dalla volontà di giustificare perché un papa possa
pronunciare una lectio nell’università della sua città. Ironia della sorte: la riflessione, forse più
ampia, del perché il vescovo di Roma abbia il diritto di parlare è contenuta in un discorso da lui mai
pronunciato.
L’argomentazione del perché un vescovo-papa possa esprimere il proprio insegnamento in
un’università fondata da un suo lontano predecessore (Bonifacio VIII) veleggia tutta in alto, sul
piano dei principi. Le sue parole, quindi, sarebbero, paradossalmente, risultate virtuali soprattutto se
lette dal papa in un’aula magna gremita di docenti togati. In effetti, nel discorso di Ratzinger non
traspare alcun sospetto di quali siano i problemi reali legati al degrado dell’università italiana.
Nell’ordine dei fatti, l’istituzione che, secondo Benedetto XVI, dovrebbe avere nella ricerca della
verità la sua finalità qualificante, è, per la massima parte, una struttura di inganno che non mantiene
quasi mai quel che promette né nel corso degli studi, né, ancor meno, dopo. La dissennata
proliferazione di corsi di laurea e sedi universitarie è la cartina di tornasole di un sistema
trasformatosi in un abnorme e sfaccettato specchietto delle allodole che procura disastri di non
piccola entità alle giovani generazioni. Bloccato ogni significativo ricambio basato sui meriti, non
scalfito in modo significativo il sistema baronale, gli insegnamenti universitari si reggono
(precariamente) solo perché affidati, per la massima parte, a truppe ausiliarie di ricercatori a vita e
di assegnisti e contrattisti sottopagati e spesso illusi. Conclusione inevitabile: i giovani che,
nonostante tutto, riescono a conseguire una formazione intellettuale di rilievo sono sempre più
frequentemente destinati ad accasarsi all’estero.
Benedetto XVI non poteva, né doveva mettere il piede direttamente in questo piatto; gli spettava
però lasciar capire che sapeva che questi fenomeni esistono. In realtà, l’astratta elevatezza del
discorso alla Sapienza si presenta, nel suo piccolo, come uno specchio del massimo dramma
dell’attuale pontificato: l’incapacità non solo di leggere e di interpretare, ma persino di percepire il
mondo reale. L’illusione insita nel discorso ratzingeriano incentrato sulla verità è che i principi
siano chiamati a governare il mondo. Da questo punto di partenza è inevitabile concludere che il
mondo, nel suo svolgersi concreto, sia inevitabilmente in preda all’errore e allo sviamento. Come si
sa, i principi sono quasi sempre disattesi. In questa impostazione la difesa della «verità eterna» è
quindi affidata al suo storico riconoscimento avvenuto in passato, mentre nel presente domina
l’obnubilamento di una ragione moderna ormai incapace di radicarsi nella prima certezza divina.
Il fattore dominante nel discorso pubblico di Ratzinger è l’assolutizzazione non già della fede
cristiana, consapevolmente situata in un contesto pluralista, ma di una ragione (o meglio della
ragione) assunta come organo unico preposto alla conoscenza della verità. Si compie, però, un
ulteriore passo, riassumibile pressappoco nel modo seguente: siccome la verità per definizione è una
e siccome il messaggio cristiano è vero, i due hanno contratto, in linea di principio, un matrimonio
indissolubile. Il risvolto più inquietante di questa impostazione non tocca i laici (il quale dal
messaggio ricevono solo un’ennesima immagine parziale della fede), bensì i credenti cattolici a cui
è prospettata una fede necessariamente agganciata a una concezione della ragione incapace di
reggere alla critica del pensiero moderno. In definitiva, la volontà di assegnare a un’esausta
apologia di una determinata concezione della ragione un ruolo strategico consegna l’attuale
magistero all’incomprensione degli apporti più qualificanti della cultura moderna e all’estraneità dal
mondo reale.
Una ragione o la ragione?
Quello scritto per la Sapienza è un discorso articolato e complesso, in gran parte dedicato a una
ricostruzione delle linee guida dell’università medievale, ma anche capace di un confronto con un
paio di pensatori contemporanei (Rawls, Habermas). Seguirlo e discuterlo passo a passo
richiederebbe tempo. Pare però non arbitrario (per quanto inevitabilmente parziale) riassumerlo
ricorrendo a qualche citazione. La prima si riferisce alla legittimità che il papa possa intervenire in
un discorso pubblico come pastore di una determinata tradizione religiosa. Si legge: «il papa parla
come rappresentante di una comunità credente, nella quale durante i secoli della sua esistenza è
maturata una determinata sapienza della vita; parla come rappresentante di una comunità che
custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienze storiche, che risulta importante per l’intera
umanità: in questo senso parla come rappresentante di una ragione etica». Passaggio ineccepibile e
pienamente condivisibile, se non fosse per il fatto che, nel resto del discorso, l’articolo
indeterminativo è sostituito da quello determinativo: «così il papa come pastore della sua comunità,
è divenuto sempre più anche una voce della ragione etica dell’umanità». Tra i due tipi di articoli la
differenza non è minore di quella che separa il giorno dalla notte.
Da buon professore, Ratzinger ama le ricapitolazioni. Il sunto finale ci è perciò offerto dalle stesse
parole conclusive: «Con ciò ritorno al punto di partenza. Che cosa ha da fare e da dire il papa
nell’università? Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritativo la fede, che
può essere solo donata in libertà. Al di là del suo ministero di pastore della chiesa e in base alla
natura intrinseca di questo ministero pastorale è suo compito mantenere desta la sensibilità per la
verità; invitare di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo
cammino, sollecitare a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire
così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro».
Ci si può domandare: la ragione ha davvero bisogno di un papa per essere invitata a mettere in moto
la propria ricerca? E ancor di più, ha bisogno del vescovo di Roma per sapere quando cammina
sulla strada maestra della verità e quando invece erra lungo i viottoli sdrucciolevoli del relativismo?
L’annuncio dell’evangelo è compito peculiare del credente. Dal canto suo, l’annuncio di una
neppure al papa (la ricerca razionale per sua natura non è legata a nessuna «buona novella» che le
giunge dall’esterno); ma, francamente, non si ricava un granché neppure ricorrendo alla variante più
gentile dell’invito.
Piero Stefani in “il foglio” (mensile di alcuni cristiani torinesi) n° 349 del febbraio 2008