Modi di vedere – Tempeste sull’Iran
Conteggio alla rovescia
Silenziosamente, furtivamente, al riparo dalle telecamere, la guerra contro
l’Iran è cominciata. Numerose fonti confermano che gli Stati Uniti hanno
intensificato i loro aiuti a diversi movimenti armati a base etnica – azeri,
beluchi, arabi, curdi, minoranze che, prese nell’insieme, rappresentano circa il
40% della popolazione iraniana – allo scopo di destabilizzare la Repubblica
islamica. All’inizio di aprile la televisione ABC rivelava che il gruppo beluchi
Jound Al-Islam («I soldati dell’Islam»), che aveva appena sferrato un attacco
contro alcuni guardiani della rivoluzione (una ventina i morti), -aveva goduto
di un’assistenza segreta americana. Un rapporto di The Century Foundation
(1) rivela che commando americani operano all’interno stesso dell’Iran
dall’estate del 2004. il 29 gennaio 2002, nel suo discorso sullo Stato
dell’Unione, il presidente Gorge W. Bush classificava l’Iran, con la Corea del
Nord e l’Iraq, nell’ «Asse del Male». Il 18 giugno 2003 affermava che gli
Stati Uniti e i loro alleati «non tollererebbero» l’accesso di questo
paese all’armamento nucleare. Non è inutile ricordare il contesto dell’epoca.
Mohammad Khatami era allora presidente della Repubblica islamica e moltiplicava
i suoi appelli al «dialogo fra le civiltà». In Afghanistan gli Stati
Uniti avevano beneficiato del sostegno attivo di Teheran, che aveva messo in
moto le sue molteplici reti di contatti per facilitare il rovesciamento del
regime dei taliban. Il 2 maggio 2003, in occasione di un incontro a Ginevra fra
l’ambasciatore iraniano Javad Zarif e Zalmay Khalilzad, all’epoca inviato
speciale del presidente Bush in Afghanistan, i dirigenti di Teheran
Presentavano
alla casa bianca una proposta di negoziato globale sui tre temi: le armi di
distruzione di massa; il terrorismo e la sicurezza; la cooperazione economica
(2). La Repubblica islamica si dichiarava pronta a sostenere l’iniziativa di
pace araba del vertice di Beyrut (2002) e a contribuire alla trasformazione
degli Hezbollah libanesi in un partito politico. Il 18 dicembre 2003 Teheran
firmava il protocollo addizionale del trattato di non proliferazione nucleare (TNP),
protocollo che soltanto qualche Paese ha ratificato e che rafforza
considerevolmente le capacità di sorveglianza dell’Agenzia Internazionale
dell’Energia Atomica (AIEA).
Tutti questi gesti di apertura furono totalmente e semplicemente spazzati via
dall’Amministrazione americana, che rimane focalizzata su un obiettivo, il
rovesciamento del «regime dei mullah». Per creare le condizioni favorevoli a un
eventuale intervento militare essa continua ad agitare la «minaccia nucleare».
Da anni sono stati prodotti dalle succedentisi amministrazioni americane
rapporti allarmisti, sempre smentiti. Nel gennaio 1995 il direttore dell’Agenzia
americana per il controllo degli armamenti e il disarmo affermava che l’Iran
avrebbe potuto avere la bomba nel 2003; parallelamente, il segretario alla
Difesa William Perry affermava che questo obiettivo sarebbe raggiunto prima del…
2000. queste «previsioni» furono ripetute l’anno successivo da Shimon Peres (3).
Tuttavia, in aprile 2007, malgrado i progressi compiuti dall?Iran in materia di
arricchimento dell’uranio, l’AIEA stimava che Teheran non disporrà «della
capacità» di produrre la bomba entro quattro/sei anni.
Come stanno realmente le cose? Dagli anni ’60, quindi ben prima della vittoria
della rivoluzione islamica, l’Iran ha cercato di sviluppare una filiera nucleare
per preparare il dopo-petrolio. Con l’evoluzione delle tecnologie, la padronanza
totale del ciclo del nucleare civile rende più facile il passaggio al militare.
I dirigenti di Teheran hanno preso una simile decisione? Nulla permette
d’affermarlo. Il rischio esiste? Si, e per motivi facili da comprendere.
Durante la guerra fra Iraq e Iran (1980-1988) il regime di Saddam Hussein ha
utilizzato, in violazione di tutti i trattati internazionali, le armi chimiche
contro l’Iran; né gli Stati Uniti né la Francia si sono indignati per questo
impiego di armi di distruzione di massa che ha traumatizzato il popolo iraniano.
D’altra parte, le truppe americane occupano l’Iraq e l’Afghanistan e l’Iran è
racchiuso da una rete densa di basi militari straniere. Infine, due Paesi
vicini, il Pakistan e Israele, dispongono dell’arma nucleare. Quale leader
politico iraniano sarebbe insensibile di fronte a una simile situazione?
Da allora, come fare per evitare che Teheran acceda alle armi nucleari, ciò che
rilancerebbe la corsa agli armamenti in una regione già molto instabile e che
darebbe un colpo indubbiamente fatale al trattato di non proliferazione?
Contrariamente a quello che si è sovente ventilato, l’ostacolo essenziale non
sta nella volontà di Teheran di arricchire l’uranio: l’Iran, secondo il TNP, ne
ha il diritto ma ha sempre affermato di essere pronto ad apportare
volontariamente restrizioni a questo diritto e ad accettare un rafforzamento dei
controlli dell’AIEA, per evitare ogni eventuale utilizzo dell’uranio arricchito
a fini militari.
D’altra parte la preoccupazione fondamentale della Repubblica islamica è
altrove, come lo prova l’accordo sottoscritto il 14 novembre 2004 con la
«troika» europea (Francia, Regno Unito, Germania): l’Iran accettava di
sospendere provvisoriamente l’arricchimento dell’uranio, dato per inteso che un
accordo a lungo termine «fornirebbe impegni fissi sulle questioni di
sicurezza». Poiché questi impegni sono stati rifiutati da Washington, l’Iran
ha ripreso il suo programma di arricchimento.
Invece di sviluppare una politica indipendente, l’Unione Europea si è allineata
su Washington. Le nuove proposte formulate dai cinque membri del Consiglio di
Sicurezza e dalla Germania, nel giugno 2006, non contenevano alcuna garanzia di
non-intervento negli affari iraniani. Nella sua risposta, in agosto, Teheran
esigette di nuovo che «le parti occidentali che vogliono partecipare alle
negoziazioni dichiarano a nome loro e degli altri Paesi europei la rinuncia
alle politiche di intimidazione, di pressione e di sanzioni contro l’Iran».
Solamente un simile impegno permetterebbe di riavviare i negoziati.
Altrimenti l’escalation è inevitabile. Tanto più che l’elezione alla presidenza,
in giugno 2005, di Mahmud Ahmadinejad non facilita il dialogo, perché il nuovo
eletto moltiplica le dichiarazioni incendiarie, specialmente sul genocidio degli
Ebrei e su Israele. Ma l’Iran, un grande Paese dalla ricca storia, non può
essere riassunto al suo solo presidente. Nel seno stesso del potere le tensioni
sono forti e Ahmadinejad alle elezioni municipali e a quelle dell’Assemblea dei
saggi in dicembre 2006 ha subito una disfatta elettorale. In senso più largo, la
contestazione a un tempo economica e sociale rimane forte e sono vivaci le
aspirazioni a più libertà, in particolare nelle donne e nei giovani. La società
rifiuta ogni azione tendente a irreggimentarla. Il solo strumento di cui il
regime dispone per cementare la popolazione attorno a sé resta proprio il
nazionalismo, il rifiuto delle ingerenze straniere delle quali l’Iran ha
sofferto nel corso dell’intero XX secolo…
Malgrado il disastro iracheno niente indica che il presidente Bush abbia
rinunciato ad attaccare l’Iran. Questo obiettivo s’inscrive nella sua visione di
una «terza guerra mondiale» contro il «fascismo islamico», una guerra ideologica
che non può finire se non con la vittoria totale. La demonizzazione dell’Iran,
facilitata dall’atteggiamento del suo presidente, s’inscrive in questa
strategia, che può sfociare in una nuova avventura militare. Sarebbe una
catastrofe, non soltanto per l’Iran e per il Vicino Oriente, ma anche per le
relazioni che l’Occidente, e in primo luogo l’Europa, mantiene con questa
regione del mondo.
Alain Gresh
(Le Monde Diplomatique, Quaderno della serie Manière de voir)
(traduzione dal francese di José F. Padova)
(1)
Sam Gardiner, « The
end of the “summer of diplomacy” : Assessing US military options on Iran »,
Washington, DC, 2006.
(2)
Circa questa offerta leggere Gareth Porter, « Burnt offering », The American
Prospect, Washington, DC, juin 2006.
(3)
Vedi « Quand
l’Iran aura-t-il l’arme nucléaire ? », « Nouvelles d’Orient »,
4 septembre 2006.