Il meticciato che
anticipa il nostro futuro
È possibile, anche se per nulla scontato, che nei giorni prossimi un nero, un
meticcio, un
sanguemisto - fate voi venga eletto al vertice della prima potenza mondiale. Se
tale evento si
verificasse - a dispetto delle resistenze e dei pregiudizi che nessun sondaggio
d'opinione è in grado
di registrare, perché impronunciabili - avrebbe conseguenze culturali e
politiche straordinarie. Ben
oltre i confini degli Stati Uniti d'America. Per intuirlo, basta leggere come lo
stesso Barack Hussein
Obama Jr. desidera presentarsi. «In quanto figlio di un nero e di una bianca,
nato nel crogiuolo
razziale delle Hawaii, con una sorella per metà indonesiana ma in genere
scambiata per messicana o
portoricana, e un cognato e una nipote di origini cinesi, con alcuni
consanguinei che assomigliano a
Margaret Thatcher e altri così neri da poter passare per Eddie Murphy, tanto che
i raduni familiari
assumono l'aspetto di una riunione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite,
non mi è mai stato
possibile limitare la mia lealtà su base razziale o misurare il mio valore su
base tribale».
Mentre noi ci gingilliamo ancora con la razza Piave e l'identità padana,
l'America non vive più la
razza Obama come corpo estraneo e dunque può aspirare al superamento simbolico
dei conflitti
razziali che pure hanno contraddistinto tanti passaggi drammatici della sua
storia. Permangono negli
Usa, certo, e anzi si acutizzano disuguaglianze sociali a sfondo etnico. Ma è
ancora Obama a dirci la
rivoluzione che la sua leadership potrebbe favorire: «Ho fratelli, sorelle, zii
e cugini di ogni razza e
colore, sparsi su tre continenti, e finché avrò vita, non dimenticherò mai che
in nessun altro Paese
della terra sarebbe possibile una storia come la mia. Non è la storia di un
classico candidato. Ma ha
impresso nel mio patrimonio genetico l'idea che questa nazione è più della somma
delle sue parti,
che siamo molte persone, ma un unico popolo».
Tanti americani, un unico popolo meticcio. La fiducia cioè nella possibilità che
l'identità nazionale
si rafforzi come esito della fusione tra diversi. Quale stridente contrasto con
le parole grossolane
pronunciate a Rimini nell'agosto 2005 da Marcello Pera, all'epoca presidente del
Senato: «In Europa
la popolazione diminuisce, si apre la porta all'immigrazione incontrollata, e si
diventa tutti meticci».
Certo la razza Obama – mi permetto di usare questa parola imbarazzante perché è
lo stesso
candidato nero a farla propria con sapiente disinvoltura nei suoi discorsi –
costringe la classe
dirigente Usa a una revisione culturale della propria fisionomia. Il teorico dei
conflitti di civiltà,
Samuel P. Huntington, nel suo saggio su La nuova America (Garzanti), lamenta il
fatto che «le
identità subnazionali, binazionali e transnazionali» abbiano eroso «la
preminenza dell'identità
nazionale». Soprattutto dopo l'11 settembre 2001, per Huntington non può
esistere altra via di
rafforzamento del «credo americano» che prescinda dalla «cultura
anglo-protestante» su cui si è
fondata la nazione per ben tre secoli. Obama, lungi dal produrre una rottura con
la tradizione e i
valori occidentali finora incarnati nei "WASP" (White Anglo-Saxon Protestant),
ne rappresenta la
storica evoluzione cosmopolita. Convivono in lui l'afflato religioso dei coloni
che fondarono
l'America, la sensibilità di chi ha vissuto discriminazioni anche sulla sua
pelle, la memoria di un
padre africano e di un'infanzia indonesiana. Ciò che non gli impedirà, se
eletto, di difendere gli
interessi statunitensi nel mondo, più o meno efficacemente, come i suoi
predecessori. Impersonando
però una novità generazionale planetaria, figlia dei secoli delle migrazioni di
massa. Obama
anticipa il nostro comune futuro. Obama è un accadimento dirompente.
Richiamerebbe, se eletto, le
nostre più divertenti fantasie sul "chissà quando avremo un papa nero".
Piace immaginare che un presidente degli Stati Uniti afroamericano, meticcio,
sanguemisto
otterrebbe udienza diversa – almeno in principio – dal Medio Oriente all'Africa.
Sarò ingenuo, ma
oso sperare che costringerebbe a una maggior pulizia di linguaggio certi
energumeni del
"politicamente scorretto" che per sembrare più vicini al popolo ironizzano in tv
sull'"abbronzatura"
di chi non ha la pelle bianca come loro. Ciò che più conta, retrocederebbe ad
anticaglia improbabile
tutta la retorica sulla difesa delle identità minacciate di contaminazione.
Dubito che i nemici
nostrani del meticciato, spacciatori d'identità artificiali e inautentiche,
potrebbero permettersi di
dare del bastardo al presidente della maggiore nazione occidentale. Un buon
sostegno per chi cerca
di tenere separata la genetica dalla politica.
Troppo bello per essere vero? È per questo che serpeggia la paura che Barack
Hussein Obama Jr.
possa essere assassinato in quanto anomalia insopportabile, nel tempo dei
conflitti di civiltà che regalano spazio ai predicatori di una ormai impossibile
separazione etnico-religiosa. È per questo che sull'elezione di Obama,
nonostante i favori dei sondaggi, aleggia l'incognita del non detto razzista,
presente anche in una quota ristretta (ma potenzialmente decisiva)
dell'elettorato
democratico. È per questo che taluni paventano, nel caso di un suo insuccesso,
la recrudescenza dei
conflitti razziali.
Obama si candida alla Casa Bianca grazie a un talento e un carisma che gli hanno
già consentito di
frequentare le migliori università e di soppiantare l'establishment del Partito
democratico. È riuscito
a presentarsi come un Giosuè in grado di guidare il popolo nuovo,
definitivamente riunito oltre la
frattura tra i padri costituenti e il secolo della schiavitù. Con il voto di
martedì prossimo l'America
si trova in bilico sul crinale di un passaggio d'epoca che ha rilevanza
mondiale.
Gad Lerner la Repubblica
30 ottobre 2008