MERCATO E DIRITTI

 

Lo hanno elevato a livello di idolo e lo hanno posto in un tabernacolo, ma lui, il mercato, non perde occasione per farsi beffa dei suoi adulatori. L’ultima opportunità gli è stata offerta da Telecom, un’impresa che fino al 1997 era nelle mani del pubblico e godeva di ottima salute. Poi, per rispondere al diktat liberista, che aveva colonizzato tutte le teste compresa quella di D’Alema che nel 1997 era presidente del Consiglio, venne offerta in sacrificio al grande dio mercato. Così, un bene comune costruito con le tasse di generazioni di italiani, deputato a svolgere un servizio di primaria importanza, veniva ceduto a chi è solo a caccia di profitti, spesso non attraverso la via maestra della produzione e la vendita, ma tramite i trucchi e i trucchetti della speculazione. Ed ecco lo scandalo Telecom aggiungersi allo scandalo Parmalat e allo scandalo Cirio, tutte imprese finite nel tritacarne dei debiti. Ma come tutti sanno, Telecom si è trovata anche al centro di altri due scandali. Da una parte quello sulle intercettazioni. Dall’altra quello dei conti esteri che, secondo l’accusa, venivano usati per gestire operazioni speculative secondo un sistema tutto particolare. Se portavano guadagni venivano iscritte nei conti personali degli amministratori. Se portavano perdite venivano registrate sul conto di Telecom. Se vivessimo in un Paese civile ce ne sarebbe abbastanza per dire che la prova è andata male. Che il bene è requisito e torna nelle mani del pubblico. Invece il 28 settembre Prodi si è presentato alla Camera per confermare la sua fedeltà al dio mercato, affermando che “non avremo uno Stato proprietario”.

Sappiamo che il liberismo ha attecchito anche grazie allo sfacelo dei regimi socialisti. Un evento che ha fatto vergognare come ladri i dirigenti della sinistra e li ha indotti, per reazione, a diventare i più strenui sostenitori del mercato. Ma non possiamo continuare all’infinito a strisciare per terra per la vergogna degli errori dei padri ed è arrivato il momento di riaprire un dibattito serio sul ruolo del mercato e del pubblico. La posizione dei liberisti è nota: il pubblico si deve occupare del meno possibile e quando se ne occupa deve avvalersi della collaborazione delle imprese private. Non a caso perfino l’attività militare è in parte delegata ai mercenari. Ma noi dobbiamo avere il coraggio di dire che il mercato può andare bene per ciò che non intacca la dignità delle persone: le collane, i costumi da bagno, i profumi, le automobili. In una parola può andare bene per i desideri, ma non per i diritti. Questo è il discrimine fra mercato ed economia pubblica.

I diritti non sono optional legati al censo, all’età o al sesso. La salute, l’istruzione, l’alloggio, i trasporti, ma anche le quote vitali di acqua, cibo, energia, vestiario, spettano a tutti, ricchi e poveri, giovani e vecchi, uomini e donne, bianchi e neri. I diritti sono la nostra seconda pelle. Ci appartengono come il nostro nome e cognome. Ci spettano per il fatto stesso di esistere. Nasciamo col diritto a vivere, nutrirci, coprirci, curarci, istruirci, muoverci, comunicare. Proprio perché non dipendono dalla nostra ricchezza, non appartengono al mercato.

Il mercato è una grande macchina che soddisfa anche le voglie più bizzarre, ma a una condizione: che abbiate in tasca i soldi per pagare. Chi ha denaro da spendere è il grande benvenuto. Chi non ne ha è il grande rifiutato. Per questo dobbiamo gridare a gran voce che i diritti appartengono alla comunità che deve farsene carico attraverso un patto di solidarietà collettiva.

Il pubblico, la parola stessa lo dice, deve occuparsi di ciò che è di tutti ed oltre ai diritti deve occuparsi dei beni comuni: l’acqua, l’aria, i boschi, i fiumi, i mari. Li deve difendere con leggi severe affinché nessuno li deturpi. Li deve curare con servizi adeguati affinché siano salvaguardati. Li deve gestire con equità e giustizia affinché tutti ne possano godere.

Allora scrolliamoci di dosso i complessi di inferiorità e torniamo a riaffermare il primato dell’economia pubblica come l’economia di tutti. Riccardo Petrella ci ha ricordato che repubblica viene da res publica, che vuol dire la cosa pubblica. Allora non abbiamo molto da inventarci. Dobbiamo solo prendere le parole sul serio.

 

Francesco Gesualdi        Altreconomia di Novembre 2006