Martin Luther King, 40 anni dopo
Il Lorraine motel è ancora lì, in un quartiere non agiato
di Memphis: a vederlo, pare un ambiente improbabile per un evento storico, tanto
è liso e ordinario. Eppure alle sei del pomeriggio del 4 aprile 1968 Martin
Luther King stava proprio al balcone, al primo (e ultimo) piano di quest'edificio
prefabbricato, quando fu ucciso da una fucilata. Oggi - manco a dirlo -
l'albergo è diventato un museo nazionale per i diritti civili.
Come tutti gli esseri scomodi, King andava prima ammazzato, compianto con un
lutto nazionale, decorato con medaglie postume al valor civile, celebrato come
strenuo martire per la libertà, indi musealizzato, e infine ridotto a innocua
icona. La prima pietra del suo Memoriale con un scultura di Lei Yixin è stata
posta nel 2006 a Washington dove nel 1963 tenne il famoso discorso in cui diceva
«Ho un sogno» (I have a dream), frase citata così tante volte a proposito e a
sproposito dai più disparati politici europei, da indurci all'oniromanzia
comparata; mentre quasi nessuno ricorda la critica che Malcolm X rivolse a
questo «sogno» di armonia razziale, quando definì la Marcia di Washington la
«Farsa di Wahington».
Non c'è ghetto nero negli Usa che non sia traversato da un Martin Luther King
Drive. Quegli stessi ghetti neri che non cessano di ricordarci come il sogno di
King sia tuttora solo un sogno, a 40 anni dal suo omicidio: negli Stati uniti,
rispetto ai bianchi, ancora adesso la vita media dei neri è sei anni più breve,
la mortalità infantile è tripla, la probabilità di essere vittime di un omicidio
è sei volte più alta. La percentuale di neri sotto la soglia della povertà è il
triplo dei quella dei bianchi, mentre il reddito medio delle famiglie nere è un
35% più basso. Per non parlare dell'incarcerazione, che negli Stati uniti vede
in atto il più grande «internamento razziale» della storia.
I neri sono solo il 12,5% della popolazione, ma quasi la metà dei detenuti. Un
giovane maschio di un ghetto nero ha la certezza statistica di finire in galera
almeno una volta nella sua vita. Anche la desegregazione sembra destinata a
rimanere un sogno, se è vero che, grazie ad alcune recenti sentenze della Corte
suprema, in tutte le città degli Stati uniti è in corso un processo di
accelerata risegregazione razziale delle scuole (tema cui il Christian Science
Monitor ha di recente dedicato una copertina). Di decennale in decennale, la
rituale celebrazione degli anniversari a cifra tonda ha perciò una funzione
insieme assolutoria e disinnescante. Come Ernesto Che Guevara è assurto a icona
universale quando il termine «rivoluzione» è diventato una parolaccia, così
onorare Martin Luther King è un artifizio della retorica collettiva per
rimuovere il problema della superiorità bianca e cullarsi nella convinzione che
negli Stati uniti si sia ormai richiusa la piaga razzista: un po' come in India
i benpensanti sostengono che le caste «sono un problema del passato». Quest'anno
la compunta ipocrisia dell'anniversario è accentuata dalla concomitanza con
l'accesa competizione in campo democratico per le primarie presidenziali e la
folgorante ascesa di Barack Obama, Con balzani paragoni tra i due personaggi - e
il nemmeno tanto sotterraneo auspicio, da parte di tanti razzisti di qua e di là
dell'Atlantico, di vedere l'ascesa del senatore dell'Illinois terminare in un
simile sanguinoso epilogo. L'ascesa di Obama sarebbe la dimostrazione vivente
che il sogno di King si è avverato, che la vergogna del razzismo è ormai alle
spalle e che gli Usa sono pronti per un presidente nero. In realtà il paese può
restare benissimo razzista anche con un presidente nero, tanto più se una delle
ragioni principali per cui molti americani bianchi votano Obama è che è «il
primo nero che non li fa sentire colpevoli di essere bianchi». Obama fa parte di
una ristretta, ma consistente borghesia nera che ha già espresso i Colin Powell
e le Condoleezza Rice, una minoranza che si apre un varco nell'élite
statunitense mentre statisticamente le sorti della comunità nera rimangono
stazionarie, quando non si aggravano. Ma soprattutto, Martin Luther King era il
portavoce dei neri, mentre Barack Obama fa di tutto per essere un candidato nero
sì, ma «postrazziale» e soprattutto non «candidato dei neri». Senza contare
altre differenze sostanziali: quelle del messaggio politico innanzitutto. Luther
King si rivolterebbe nella tomba a sentire Obama parlare degli eccessi delle
«discriminazioni positive» e delle sofferenze che a causa di esse hanno subito i
bianchi. Per Obama il dramma della povertà negli Stati uniti non è così tragico
e urgente come per King. D'altronde, un nero non avrebbe nessuna possibilità di
essere eletto presidente degli Stati uniti se non si presentasse come moderato,
centrista, anzi un po' conservatore. La differenza del messaggio si articola in
una totale diversità dell'azione politica. Mai Obama sarebbe finito in carcere
per una manifestazione. E qui va chiarito un malinteso che in Italia si è
diffuso, grazie al - magari involontario - contributo di Rifondazione Comunista,
e cioè che la politica della non violenza sia non violenta, sia non
conflittuale, dolcetta e in scarpette da sera. In realtà il nome originario
della politica della non violenza era «disobbedienza civile» e comportava
prigionie, arresti, linciaggi e morti per chi la praticava: basti ricordare, a
proposito del Mahatma Gandhi, che la famosa Marcia del Sale fu repressa dagli
inglesi nel 1930 incarcerando 80.000 persone; o che il momento culminante della
lotta per i diritti civili di Luther King avvenne a Selma, in Alabama, in una
domenica del 1965 che non a caso fu chiamata «Bloody Sunday». Insomma, non
violenza non vuol dire essere innocui e imbelli.
Marco d'Eramo il manifesto 5/4/08