Il marketing del Cavaliere e il bipolarismo della xenofobia

Il premier Silvio Berlusconi nei giorni scorsi ha sostenuto l'equazione: + immigrati = + criminalità.
E ha ribadito il proposito di agire in modo coerente e conseguente. Ridurre gli immigrati per
abbassare il numero dei reati e dei criminali. Altre fonti autorevoli hanno contestato la fondatezza di
questa relazione.
A partire dalle statistiche sui reati. (Trascurando, peraltro, che il tasso di criminalità cresce insieme
al grado di marginalità sociale. I ricchi non rubano per strada o nelle case. E finiscono in carcere
molto più raramente dei poveracci
). A noi interessano, invece, le ragioni di questa affermazione.
Proprio in Calabria, proprio alla presentazione del piano antimafia. Più logico sarebbe stato un
riferimento ai fatti di Rosarno, al ruolo delle organizzazioni criminali e della ‘ndrangheta nel
mercato e nello sfruttamento dell'immigrazione clandestina. Rivendicando a sé e al governo i
successi conseguiti nella lotta alle mafie nell'ultimo anno. Invece no. Piuttosto che alle
organizzazioni criminali ha preferito rivolgersi alla criminalità comune, sottolinearne il legame con
gli immigrati. Silvio Berlusconi non è un "radical-choc". Raramente indulge alle battute di "bassa
lega". Non gli riescono bene come gli attacchi ai magistrati o a "certa stampa" che avvelena le
coscienze. Però gli capita. Ogni tanto. E mai a caso.

Perché la scelta dei temi e delle parole, nella comunicazione di Berlusconi, non avviene mai a caso.
Mai. D'altronde, i precedenti sono, al proposito, pochi e facili da ricordare. Lo scorso maggio
affermò che non è possibile spalancare le porte a tutto il mondo. Che "l'Italia non sarà mai un paese
multietnico". Annuncio un po' tardivo, visto che ci vivono ormai 4 milioni e mezzo di stranieri
(Rapporto Caritas-Migrantes 2009). Ma, appunto, è "l'annuncio" che conta. E, poi, il 4 giugno: "In
alcune città italiane, come Milano, a camminare per il centro, vedendo il numero di cittadini
stranieri, sembra di essere in una città africana". Perché a Parigi, Londra oppure a New York, nelle
altre metropoli globali, evidentemente, è diverso. Tutti rigorosamente bianchi. Ma Silvio Berlusconi
non è un radical-choc. Se maneggia la xenofobia non lo fa per convinzione ma per opportunità. Per
marketing. Un tema fra gli altri. Come il calcio, il dolore, lo sport, le donne. Basta far caso ai
momenti. Le frasi appena ricordate risalgono, infatti, alla campagna elettorale delle ultime europee.
Nell'ultimo caso, il 4 giugno, al comizio conclusivo tenuto a Milano insieme a Bossi. Anche oggi
siamo in piena campagna elettorale. E se il nemico, per Berlusconi, è il Pd, insieme all'UdC,
l'avversario è la Lega. A cui ha ceduto la candidatura alla presidenza di due regioni importanti: il
Piemonte e il Veneto (un'enclave). La Lega: alleata necessaria eppure scomoda per un partito, il
PdL, che ha una base elettorale estesa nel Mezzogiorno. Ed esprime orientamenti molto diversi dai
leghisti. La criminalità, ad esempio, non è tutta uguale agli occhi degli elettori.

La criminalità "comune": preoccupa molto gli elettori di centrodestra. Meno quelli di centrosinistra,
più reattivi nei confronti della criminalità "organizzata". Vediamo i dati dell'ultima indagine di
Demos-Unipolis (novembre 2009). La criminalità "comune" è considerata più grave di quella
"organizzata" dal 19% degli elettori del Pd e dal 16% tra quelli dell'IdV. Fra gli elettori del PdL
questo sentimento è espresso da una componente doppia: 35%; e di quasi tre volte superiore fra
quelli della Lega: 50%. Simmetrico e complementare l'orientamento rispetto alla criminalità
organizzata. La considera più grave di quella comune il 76% degli elettori nel Pd e nell'IdV, ma il
58% nel PdL e il 49% dei leghisti (che lo ritengono, a torto, un problema che non tocca il "loro"
mondo, ma il Sud). Lo stesso profilo caratterizza l'atteggiamento verso gli immigrati. Li ritengono
un pericolo per la sicurezza o per il lavoro: il 30% tra gli elettori del Pd, il 39% dell'IdV, il 62% del
PdL e il 66% della Lega. In questo bipolarismo della xenofobia, gli elettori dell'UdC si pongono in
posizione intermedia. A metà strada fra sinistra e destra.

In Italia, dunque, la paura della criminalità è diffusa, come quella nei confronti degli immigrati.
Perlopiù, le due paure vanno insieme e contagiano tutti i contesti e tutti gli elettorati. Ma alcuni in
modo diverso e maggiore rispetto agli altri. Negli ultimi anni, queste paure si sono allentate. In
particolare dopo le elezioni politiche del 2008, che hanno sancito il successo chiaro e netto del
centrodestra. Ciò ha reso la paura degli altri meno utile, politicamente – e meno interessante per i
media. Ma oggi siamo di nuovo in campagna elettorale. Alla vigilia delle regionali, che
riscriveranno i rapporti fra gli schieramenti, ma anche al loro interno. Per cui la paura torna ad
essere un buon tema di marketing politico. Gli scontri di Rosarno evocano la rivolta degli stranieri
contro la 'ndrangheta calabrese. Sono stati rappresentati associando immigrazione, sfruttamento,
criminalità organizzata, Mezzogiorno. Tutti insieme, in un campo di significati unitario. Che
disturba soprattutto il PdL. Mentre piace alla Lega e non dispiace al centrosinistra. Da ciò la
preoccupazione del premier: sottolineare il legame fra immigrazione e criminalità "comune",
evocando, insieme, l'invasione degli stranieri.
Temi che incontrano il favore degli elettori di
centrodestra, soprattutto nel Nord. Mentre il tema della criminalità "organizzata" resta sullo sfondo.
Nonostante i risultati ottenuti dal governo su questo fronte. Per non sottolineare di più i meriti del
ministro Maroni (e della Lega). Per non turbare troppo la sensibilità degli elettori del PdL, disturbati
dalle voci e dalle inchieste che ne hanno coinvolto leader nazionali e locali.
Così vanno le cose in questo paese. Dove tutto è valutato in base all'impatto politico mediatico. A
partire dalle parole. Negri o terroni; rom, romeni o romani; trans o escort; criminali comuni o mafiosi. È solo questione di voti e di
share.

 

Ilvo Diamanti      la Repubblica  31 gennaio 2010