Marcello Cini: Giusta protesta
«Quello che mi indigna un po', francamente, è questa
pressoché unanime valanga che si sta rovesciando - oltre che su di me - sui
firmatari dell'appello, sugli studenti che hanno reagito da studenti, in un
unico blocco di violenti, intolleranti che hanno impedito al papa di venire alla
Sapienza a parlare. Io rispondo per quanto mi riguarda, perché la mia è stata
un'iniziativa personale - con una lettera scritta il 14 novembre su il manifesto
- in cui mi rivolgevo al mio lettore.
E lo criticavo anche aspramente perché vedevo nell'invito a inaugurare l'anno
accademico della Sapienza (di questo si trattava, anche se prima come lectio
magistralis, poi camuffata all'italiana con un intervento nello stesso giorno,
comunque)».
Il giorno dopo il «gran rifiuto», Marcello Cini è amareggiato. Ma non contrito.
Contesta il modo in cui quasi tutti i media hanno costruito il mancato evento e
le ragioni sue e dei firmatari della lettera al rettore della Sapienza. «La
sostanza era l'invito al papa a inaugurare l'anno accademico. A questa proposta
io ho reagito, e reagirei ancora oggi, per due ragioni. La prima è di tipo
formale, ma essenziale. L'inaugurazione dell'anno accademico è un atto pubblico,
forse il più importante, che riafferma la natura e la funzione dell'università
come istituzione di crescita della conoscenza, di formazione della cultura al
più alto livello, di uno stato laico, democratico, moderno, sui principi della
Rivoluzione francese, dell'illuminismo e della modernità. Un atto importante -
un rito se si vuole - che riafferma il modo in cui è organizzato questo processo
di crescita e trasmissione della conoscenza alle giovani generazioni. Invitare
al centro di questo rito laico un'autorità come il papa è di fatto una
contraddizione in termini, non può che generare conflitto. Il papa è a capo di
un'istituzione come la Chiesa cattolica, fondata su pricipi totalmente diversi -
come il carattere gerarchico-autoritario, detentore di una verità assoluta
proveniente direttamente da dio, quindi dalla trascendenza. Si fonda perciò su
criteri di verità, metodologici e epistemologici, completamente diversi. È
questo contesto che non si vuol capire. Ossia la coesistenza e il conflitto tra
due istituzioni di natura diversa e fondate su principi in antitesi fra loro».
Un conflitto istituzionale che non implica affatto «censura», ma rispetto della
diversità degli ambiti. «Ciò non vuol dire che il papa, come professor Ratzinger,
non sia un professore universitario, un intellettuale fine, colto, ecc. Ma la
confusione tra queste due figure che coesistono entro la stessa persona, ha
permesso di generare - per esempio in occasione dell'invito a Ratisbona -
un'interpretazione del suo discorso come una presa di posizione contro l'Islam,
con tutte le polemiche che ne sono seguite».
Luogo e occasione, insomma, con parecchie riserve su come è stata realizzata
l'idea della visita papale. «Non sarebbe successo nulla se il rettore e il
Vaticano avessero semplicemente spostato la visita in un'altra data. Anche altri
papi l'hanno fatto, esponendo il proprio punto di vista. Nei contenuti sarebbe
stato poi approvato, obiettato, contestato, ecc».
Molte distinzioni «istituzionali» sembrano svanire nel dimenticatoio...
«Tutto questo si colloca in un contesto in cui questo papato - in particolare
nel nostro paese - sta perseguendo una politica concreta tesa a sgretolare
sempre di più la separazione tra Stato e Chiesa, tra repubblica italiana e
clero. Questo ha creato una situazione in cui una presa di posizione legittima -
un professore che si rivolge pubblicamente al proprio rettore - e fondata sulla
separazione delle sfere di competenza, viene classificata, bollata e demonizzata
come un'intolleranza da parte mia, dei miei colleghi e degli studenti.
L'intolleranza quotidiana è quella che arriva alle telefonate del cardinal
Bertone ai deputati italiani di stretta osservanza cattolica perché non votino
certe leggi».
Sembra una scena da favola di Esopo (la volpe che accusa l'agnello)...
«Se questa reazione è un'intolleranza o un 'divieto di parlare', siamo a un tale
stravolgimento della realtà dei fatti che, da un lato, non può che indignarmi;
dall'altro - vedendo che tutta la sinistra e il centrosinistra si accoda a
questa mistificazione - deprimermi profondamente. C'è un'incapacità di reagire a
questo pensiero unico per cui il depositario dei valori è la religione e i laici
non hanno valori. Per acquietare le coscienze e orientarsi sul senso della vita,
sul lecito e il non lecito, su tutte queste cose l'unico riferimento ritorna a
essere la religione. È colpa nostra».
(a cura di Francesco Piccioni)
l manifesto 17/1/2008