Mafiosi devoti,
ministri della chiesa ambigui
La gran parte degli appartenenti a Cosa Nostra manifesta apertamente la propria
fede in
Dio. E diversi esponenti dell’istituzione ecclesiale cattolica si mostrano
“simpatetici” con la
visione degli “uomini d’onore”
Da alcuni anni, studiando Cosa Nostra e occupandomi soprattutto della dimensione
della
quotidianità e dei vissuti, della raccolta delle storie degli uomini e delle
donne dell.universo
mafioso, ho riscontrato come in ciascuna di esse non manchi il riferimento a una
qualche
forma di religiosità.
Talvolta esso si profila in funzione strumentale per attribuire legittimità,
sacralità e consenso
alle scelte dell.organizzazione o prestigio all.autorità del singolo capo;
talaltra, nasconde
forme di inquietudine e momenti di crisi che insorgono nella vita dei singoli
aderenti al
sodalizio criminale; in altre circostanze, ancora, il ricorso ad una comune
tradizione religiosa
fa da sostrato alla coesione sociale del gruppo, costituendo la trama della
memoria sociale,
agendo come vera e propria agenzia primaria di produzione di senso.
Partendo da questo dato, ho provato a studiare con maggiore sistematicità i
luoghi e le
occasioni in cui l'universo criminale mafioso e il mondo della chiesa trovano
singolari punti
di contatto. [1] Ho preso le mosse dal dato esperienziale, inquadrandolo entro
una prospettiva
storico-diacronica e corredandolo dei necessari riferimenti allo scenario
politico e giudiziario.
Mi sono trovata di fronte situazioni e attori sociali differenti (capimafia,
vescovi, frati, killer,
parroci e cittadini qualunque), e soprattutto a occasioni istituzionali e
informali diverse, nelle
quali la linea di confine tra due mondi apparentemente distanti e incompatibili,
si assottiglia,
diviene tenue o – addirittura – scompare.
La coerenza degli “uomini d'onore”
Utilizzando un approccio di tipo qualitativo, mi sono soffermata sulla
dimensione simbolica e
relazionale, provando a esplorare le forme e gli strumenti attraverso cui la
cultura mafiosa
attinge al patrimonio valoriale della chiesa, decidendo di prendere le mosse
dalla prospettiva
dei mafiosi, dalle tecniche di neutralizzazione, dalle giustificazioni addotte
per spiegare
l'ostentato sentimento religioso posto a fondamento delle loro azioni, e dei
loro gesti. Risulta
infatti, difficile trovare coerenza nel ragionamento di tanti uomini d’onore che
riescono –
seppur con qualche esitazione – a conciliare fede e pratica religiosa con la
violenza e
l'omicidio.
Singolare, a questo proposito, è la testimonianza di Gaspare Mutolo, uomo
d'onore della
famiglia di Partanna Mondello, divenuto collaboratore di giustizia nel 1992.
L'uomo, che ha
confessato una ventina di omicidi, non sembra trovare contraddizione tra la fede
in Dio e
l'appartenenza a Cosa nostra.
«Io sono contento quando faccio del bene a qualche persona che sta più male di
me.
[…] Non credo che domani io muoio e vado al Paradiso o all'inferno, no. Ammiro
molto i missionari. Infatti era una mia vocazione che io sentivo da bambino. […]
Cioè
partire, insomma avere questo senso di libertà ed aiutare delle persone che
stavano male
[…]. Guardi, lo ripeto, noi mafiosi siamo credenti, perché […] siamo anche noi
fatti di
carne e ossa» (Intervista di Rita Mattei, gennaio 1997).
In questo senso, è interessante anche la riflessione di Francesco Paolo Anzelmo,
anch'egli
collaboratore di giustizia, che racconta di essere stato costretto a vivere di
nascosto la propria
esperienza religiosa, recandosi in chiesa dopo ogni omicidio per chiedere
perdono a Dio.
«Io la Domenica me ne andavo a Messa […] Io mi sentivo in colpa per quello
che
facevo […] La religione che cosa è? Per me, per dire, mi dava… era un conforto
che ci
trovavo […] Perché io, magari le sembrerà assurdo, ma io dopo un omicidio, per
dire,
me ne ieva in chiesa e ci ieva a dumannari pirdunu „o Signori […], quindi era
una cosa
che a me mi dava la forza di continuare. Queste cose le facevo per conto mio e
non l.ho
mai manifestato a nessuno, perché poteva essere interpretato… […] come un segno
di
debolezza» (Intervista del prof. Girolamo Lo Verso, 2001).
Ascoltando le parole degli uomini d’onore, ho individuato luoghi e circostanze
privilegiate,
repertori di azione, spesso attinti da un patrimonio di una memoria sociale
condivisa nei quali
si manifesta il legame con la religione: i riti, le cerimonie sacre, le forme di
iniziazione.
Una pericolosa consonanza
Il paradigma adottato, fondato sulla dimensione relazionale e della reciprocità,
mi ha condotto
anche all.analisi delle posizioni espresse dalla chiesa e dai suoi ministri. Non
di rado, nei
documenti e nelle testimonianze di alcuni uomini di chiesa ho riscontrato forme
di
consonanza con le opinioni dei mafiosi sulla fede cattolica, una sorta di
simpateticità nel
sentire e nel giudicare su vicende attinenti la pratica religiosa.
Da qui il ruolo ambiguo giocato da una parte della chiesa siciliana nei
confronti del fenomeno
mafioso. Emblematici sono gli episodi che riguardano elargizioni e donazioni in
denaro da
parte di capimafia a istituzioni di culto e di assistenza, spesso in occasione
di feste e
celebrazioni sacre; situazioni nelle quali alcuni ministri della chiesa hanno la
responsabilità di
aver coltivato pratiche di collateralismo e di compiacente acquiescenza o anche,
soltanto, di
aver mostrato comprensione verso le ragioni del singolo esponente criminale,
senza curarsi
del danno che ciò avrebbe procurato all'intera collettività.
Incomprensibile anche l'indulgenza verso il comportamento in vita dei mafiosi
defunti, che in
occasione di tanti funerali è stata messa in evidenza dall'officiante, spiegando
che «solo la
giustizia divina non sbaglia ed a questa nessuno può sottrarsi o raccontare il
falso; quella
terrena no, può commettere grandi errori» (“la Repubblica”, 3 settembre 1998).
Ho provato a
immaginare l'effetto che parole di comprensione come queste possono aver
prodotto sia
dentro l'organizzazione criminale, che presso la più ampia comunità dei fedeli:
sfiducia nelle
istituzioni e accettazione della presenza mafiosa entro parametri di
“normalità”, spesso
connessi a dimensioni di convenienza o di contiguità (ideologica, economica,
sociale).
Un Dio a propria immagine e somiglianza
È divenuto, allora, necessario chiedersi – è un altro versante dell.indagine –
che tipo di
religiosità e quale modello di divinità sia quello che intende conciliare mafia
e Vangelo.
Provando a seguire le tracce di questo percorso di ricerca, è emerso chiaramente
quanto forte
venga avvertito il bisogno di un Dio a propria immagine e somiglianza anche tra
gli uomini
della mafia dei colletti bianchi, quella più evoluta nelle forme della borghesia
e
dell.imprenditoria criminale: è in questi ambienti – e non soltanto tra la bassa
manovalanza
mafiosa – che si cerca il conforto di un Dio prono ai desideri e alle
aspettative proprie e della
propria cerchia di sodali. Un Dio lontano dalla carità, dall'amore, dalla
solidarietà, dal
sacrificio gratuito; un Dio che si vuole pronto a perdonare, grazie anche alla
disponibilità di
mediatori condiscendenti o complici, capaci di piegare le ragioni della fede a
quelle di una
religiosità strumentale, egoista e violenta.
Da qui, alcune – provvisorie – indicazioni di sintesi. Innanzitutto, è evidente
come fin dalle
origini, i codici culturali utilizzati dai mafiosi abbiano fatto ricorso alla
simbologia religiosa,
ancorandosi a una teologia individualistica che rivisita strumentalmente la
simbologia e i
valori cattolici, scegliendo quelli più prossimi alle proprie finalità e
adattandoli ai propri
obiettivi. Di contro, la chiesa cattolica si è mostrata sovente disposta a
legittimare questa
“religione capovolta”, costruita secondo un modello autoritario e intimistico.
Istituzione religiosa divisa
Tralasciando il dato storico e analizzando oggi le posizioni ufficiali della
Chiesa cattolica e le
singole opinioni dei suoi esponenti, il dato più evidente è la mancanza di
unitarietà; vi è un
panorama frastagliato, sintomo di una istituzione religiosa divisa, in cui si
contrappongono
numerose anime e si generano non poche contraddizioni. Dentro questo scenario,
numerosi
ministri del culto hanno coltivato la visione di un Dio condiscendente verso il
potere mafioso,
adorato presso improvvisate cappelle costruite nei covi dei latitanti; un Dio
con cui si può
individualmente negoziare la salvezza della propria anima, senza dover passare
attraverso un
percorso di redenzione socialmente condiviso.
In numerosi incontri con esponenti del clero siciliano, mi è capitato di
registrare grande
attenzione per le vicende personali dei singoli, piuttosto che per la dimensione
civica della
socialità, talvolta al punto da giustificare il peso di comportamenti illegali.
Analogamente, ho
spesso riscontrato un atteggiamento polemico nei confronti delle istituzioni
statali e di alcuni
strumenti di lotta al crimine organizzato. In specifiche circostanze (rapporti
con i collaboratori
di giustizia, assistenza spirituale ai latitanti) si sono fronteggiate le
ragioni della magistratura
da una parte, e quelle di una gerarchia religiosa che rivendicava piena
autonomia di giudizio e
di azione, sulla soglia di comportamenti al limite dell.illecito penale.
Un impegno di pochi
Se, dunque, l.ipotesi da cui sono partita possiede una qualche legittimità, è
solo
interrompendo il processo di reciproca consonanza che trova spazio in tante
parrocchie e in
tante sagrestie, che si potrà concretamente dimostrare che la mafia non può
convivere con la
religione. La chiesa cattolica nel suo insieme deve prendere atto del fatto che
il sistema di
potere mafioso trae la sua forza proprio dai legami e dalle legittimazioni che
gli provengono
dalle istituzioni (quelle politiche, in primo luogo, ma anche quelle religiose).
È accaduto, infatti, non di rado che quando la posizione ufficiale della Chiesa
cattolica e delle
sue gerarchie in tema di resistenza alla violenza mafiosa si è fatta più chiara
e intransigente,
l'organizzazione criminale abbia risposto con le bombe e col martirio di
sacerdoti, uccisi per
aver adempiuto con rigore alla loro missione pastorale.
La mutata sensibilità della chiesa cattolica di questi ultimi anni, il lento ma
concreto processo
di elaborazione di una pastorale attenta alle ragioni della legalità che sembra
aver preso corpo
dopo le stragi mafiose e dopo l'assassinio di padre Puglisi, rischiano oggi di
entrare
nuovamente in crisi. Scarsa e occasionale è tornata ad essere l'attenzione verso
fenomeni di
corruzione o di connivenza delle istituzioni con le organizzazioni mafiose. Né
sono frequenti
prese di posizione intransigenti e forti, nei riguardi degli intrecci illegali
tra poteri economici,
politici e professionali. Accade perfino che quando singole e coraggiose
iniziative personali
balzano alla luce della cronaca, in troppi e non sempre meritevoli corrano a
godere del plauso
generale che tali iniziative riscuotono. Cosa sarebbe della missione evangelica
della chiesa in
Sicilia, senza esempi e iniziative importanti come quelli offerti da don Luigi
Ciotti, che con
l'associazione Libera e i suoi progetti di recupero e utilizzo a fini sociali
dei beni confiscati
alle mafie, ha offerto in maniera concreta nuove opportunità di vita e impegno a
tanti giovani
delle regioni meridionali. Nelle terre di mafia, l'impegno di don Ciotti e dei
suoi ragazzi ha
rappresentato un esempio di ribellione alla mafia di portata eversiva. La
presenza delle
cooperative di Libera non è passata inosservata, e le aziende giovanili sono
state
ripetutamente oggetto di attentati e intimidazioni.
E cosa dove sarebbe, oggi, la speranza di una chiesa fortemente impegnata sul
fronte della
legalità, senza l'esempio del vescovo di Piazza Armerina monsignor Michele
Pennisi, che nei
suoi interventi ha pubblicamente dichiarato di schierarsi a fianco delle
associazioni antiracket,
decidendo di escludere dalla trattativa privata per i lavori di costruzione di
alcune nuove
chiese, le aziende che non fossero in regola con la legge. Lo stesso mons.
Pennisi, dietro
consiglio delle autorità giudiziarie, ha deciso di negare la cerimonia pubblica
ai funerali del
capomafia gelese Daniele Emmanuello, ucciso il 3 dicembre 2007 nel corso di un
conflitto a
fuoco con la polizia. Ne sono seguite minacce e lettere d'insulti anonime, e ora
mons. Pennisi
è costretto a vivere sotto scorta.
Una responsabilità per la chiesa cattolica
Sono prese di posizione chiare, segnali univoci che non lasciano spazio ad
ambiguità. Se essi
diventassero patrimonio comune di tutta la chiesa cattolica, sarebbe difficile
alla consorteria
mafiosa continuare a utilizzare strumentalmente la simbologia religiosa a
sostegno della
propria legittimazione, e sarebbe certamente più semplice spezzare quel
pericoloso processo
di rispecchiamento nei rituali sacri che, nel tempo, ha fornito alle
organizzazioni criminali
riconoscibilità e rafforzamento della propria identità pubblica.
Gli esempi e gli uomini, dunque, non mancano. Tuttavia, accade ancora che quando
la politica
elargisce contributi e consulenze, la chiesa siciliana sembra divenire
improvvisamente
incapace di far sentire la propria voce, tendendo a ridimensionare il peso della
questione
mafiosa, circoscrivendola alla sua componente popolare, minimizzando il ruolo
dei cosiddetti
colletti bianchi.
Alla luce delle tante nuove conoscenze acquisite sulle complicità e sulle
infiltrazioni mafiose
nella società civile, penso che le gerarchie religiose abbiano oggi una grande
responsabilità:
quella di scegliere di diffondere una pastorale di resistenza alla mafia che
impone di essere
liberi da accordi con i poteri di turno, di rifiutare posti di consulenza,
contributi economici,
regalie ed elargizioni di pubblico denaro. Magari ricordando anche quanti netti
e coraggiosi
rifiuti dovette opporre don Pino Puglisi a chi lo blandiva e lo minacciava,
prima di morire
sull.asfalto di Brancaccio, nella consapevolezza che la fede cristiana non può
conciliarsi con
il Dio dei mafiosi.
Alessandra Dino in “Il seme sottola neve”,
maggio 2008
(L’Autrice è professore associato di Sociologia giuridica, della devianza e
del mutamento
sociale presso l’Università degli Studi di Palermo. Studiosa dei fenomeni
criminali di tipo
mafioso.)