Mafia e preti, un libro di Isaia Sales racconta come siano «vicini»

«Non si smette mai di essere preti. Né mafiosi», ripeteva spesso Giovanni Falcone, sottolineando
come lo specifico criminale che da un secolo e mezzo marchia a fuoco la vita, l’economia e la
società di quattro regioni italiane sia in realtà una religione, che dal cattolicesimo prende in prestito
i riti, il linguaggio, l’espressività liturgica.
E tuttavia, il legame non è fatto solo di simboli: Cosa
Nostra si richiama ai Beati Paoli, la camorra alla Guarduna, confraternita esistente a Toledo sin
dal XV secolo, la ‘ndrangheta ai tre arcangeli della tradizione. No, c’è di più, qualcosa che va oltre
la sintassi dell’esteriorità, nel rapporto, mai investigato a sufficienza, tra Chiesa e grandi
organizzazioni criminali.

Nel suo documentatissimo «I preti e i mafiosi», Isaia Sales, tra i più lucidi studiosi dei fenomeni
mafiosi, docente di Storia della criminalità organizzata nel Mezzogiorno d’Italia al Suor Orsola
Benincasa di Napoli, mette subito le cose in chiaro. Innanzitutto, sostiene Sales, c’è una gravissima
condotta omissiva, addebitabile ad un «giusnaturalismo di sangue», che la cultura cattolica mutua
da quella mafiosa (e viceversa: l’esistenza di altre Giustizie oltre a quella dei Tribunali) in
opposizione al positivismo del diritto statuale.
La Chiesa, è la tesi di fondo del libro, non ha mai
alzato un argine – né dottrinale, né teologico, né morale – contro il proliferare delle mafie. Ne ha
anzi tollerato (quando non fiancheggiato) il radicamento, concimandolo talvolta con una
sconcertante sintonia valoriale:
le comuni posizioni in materia di morale sessuale, o in politica,
dove l’anticomunismo è consustanziale.

La carica antistatuale della Chiesa e quella delle organizzazioni criminali hanno finito spesso col
convergere.
Al punto che dal martirologio cristiano sono espunti gli eroismi, in nome della fede e di
un credo fondato sull’anti-violenza (l’esatto opposto, in teoria, dell’
ethos mafioso), di decine di
preti uccisi dalle mafie, di cui poco o punto si sa.
Solo recentemente, con i sacrifici di don Pino
Puglisi, fatto ammazzare come un cane a Brancaccio dai fratelli Graviano, e di don Peppe Diana,
eliminato a Casal di Principe dai sicari di Sandokan, è emersa una coscienza nuova, tuttavia
confinata a pochi casi isolati di preti – coraggio. Le eccezioni. E così, nel paese degli atei devoti,
l’archetipo mafioso è quello del fervido credente criminale efferato, che si fa il segno della croce
prima di ordinare un omicidio o di premere il grilletto: i covi dei superlatitanti sono sempre zeppi di
immagini e testi sacri, dalla Bibbia al Vangelo, i boss vengono maritati in chiesa, confessati,
comunicati e, se muoiono nel loro letto, ricevono l’estrema unzione.
La parte più suggestiva del
saggio è quella in cui Sales ipotizza, non senza riferimenti «alti», una sorta di «complementarietà»
tra il fenomeno mafioso e l’affermazione di alcuni precetti cristiani: dalla teoria della Confessione
di Sant’Alfonso, a quella del criminale pecorella smarrita, un filo sottile tiene insieme il
comportamento deviante e l’esigenza cattolica della «redenzione», in cui il valore della
dissociazione prevale su quello del pentimento. Anche in questo caso, i due antiStato s’incontrano.


Massimiliano Amato     l'Unità  4 marzo 2010