Ma quale libero
dibattito: Senato succube della Cei
Sarà senza dubbio una pura coincidenza, una di quelle frutto del
cieco caso e ben lontana da ogni
disegno precostituito o "provvidenziale", ma la Commissione del Senato ha
aspettato il comunicato
finale della Cei prima di cominciare i lavori. Anzi, i lavori iniziano
all'indomani, in segno di
deferente rispetto all'autorevole pronunciamento… Diamine! Che volete che ne
sappiano i nostri
Senatori sui temi eticamente sensibili? Mica possono decidere con la loro testa!
Sono cose gravi e
delicate, e bisogna ascoltare quelli che più ne sanno: e così si è atteso il
comunicato finale della
Conferenza episcopale Italiana che ha ben chiarito la posizione della chiesa
cattolica romana al
riguardo. Poi, naturalmente, i senatori saranno liberi di scegliere, ma adesso
agli italiani è chiara la
differenza tra l'errore e la verità!
E se qualcuno dovesse deviare da quanto stabilito dalla Cei, ovviamente
sarà il solito laicista,
individualista, nichilista, cavaliere della "cultura della morte", e via dicendo
con tanti bei
complimenti.
A parte gli scherzi, vedremo che piega prenderanno i lavori parlamentari. Per
adesso sul piano
culturale il comunicato finale della Cei è interessante perché offre
l'interpretazione autentica delle
parole pronunciate dal cardinale Bagnasco nella prolusione di apertura,
precisando senza incertezze
la posizione della chiesa cattolica romana: la legge non deve riguardare il
«testamento biologico,
espressione di una cultura dell'autodeterminazione», perché questo sarebbe
legittimare la sovranità della persona circa le scelte sulla fine della vita (e
quindi anche sul proprio corpo). È invece fattibile una legge sulla fine della
vita, che avrebbe due funzioni:
1) bloccare subito le sentenze dei giudici
che, in ossequio alla Costituzione repubblicana, mostrano aperture
all'autodeterminazione;
2) fare in modo che «non vengano in alcun modo legittimate o
favorite forme mascherate di eutanasia, in
particolare di abbandono terapeutico, e sia invece esaltato ancora una volta
quel favor vitae che a
partire dalla Costituzione contraddistingue l'ordinamento italiano».
Si potrebbe osservare che le affermazioni non si limitano
all'ambito morale, ma entrano nel vivo di
questioni giuridiche ben precise, sollevando un problema di "competenza", ma
queste
considerazioni sono ormai di tempi passati e lontani, quando il senso delle
istituzioni statali era più
marcato. Oggi viviamo nella "società liquida" in cui i vescovi discettano di
diritto e avanzano la
pretesa di essere gli interpreti della Costituzione italiana, ed è vano
ricordare che, forse, il loro
compito dovrebbe limitarsi ad altri campi. Prendo atto dei tempi, e considero il
punto di fondo
sotteso al loro discorso che è contro l'autodeterminazione circa la propria vita
biologica.
Dicendo che va esaltato il favor vitae e che vanno «evitate forme mascherate di
eutanasia», i
vescovi vengono a rimettere in discussione lo stesso consenso informato del
paziente stesso. Infatti,
la nozione di eutanasia è oggi abbastanza chiara: è l'atto con cui si causa la
morte di un paziente che
è in una situazione infernale e che ha chiesto di essere esentato dal permanere
in tale condizione. In
parole povere è dare un'iniezione che ponga fine alle sofferenze di un paziente
senza scampo che
aveva chiesto di essere risparmiato da tale scempio. Fin qui, si potrà
condividere o no, ma il
discorso è chiaro.
Ma quali sono le forme di eutanasia mascherata o di abbandono terapeutico?
Questo lo sanno solo i
vescovi e chi segue le loro direttive. Ci troviamo di fronte a belle espressioni
che non hanno un
significato preciso, la cui interpretazione più accreditata è quella che rimanda
alla esaltazione del
favor vitae , ossia dell'idea che i dinamismi vitali vanno sempre rispettati e
favoriti come chiede
l'etica della sacralità della vita. In altre parole, ci si chiede di
accettare "a scatola chiusa" l'antica
idea dell'ippocratismo secondo cui è il medico che conosce il bene del paziente,
perché il medico
conosce i dinamismi vitali che sono di per sé sempre buoni. La volontà del
paziente non c'entra
nulla, a meno che sia conforme con questo indirizzo - perché altrimenti si ha
qualche forma di
eutanasia mascherata o di abbandono terapeutico.
C'è una profonda coerenza in quest'impostazione. Per la chiesa cattolica
romana il cittadino è libero
e sovrano di decidere solo nei limiti stabiliti dal diritto naturale, che
stabilisce i binari entro cui si
esercita l'"autentica libertà". Ove pretendesse di uscire da quei binari
trasformerebbe la libertà in
licenza, facendo qualcosa di simile ad un treno che pretendesse di uscire dalle
rotaie. Questo vale
già nel campo politico e familiare, ed a maggior ragione in quello circa la
propria vita. Il punto
importante da capire è il seguente: il testamento biologico non è altro che uno
strumento con cui
estendere il consenso informato a situazioni in cui il cittadino non è più in
grado di esprimere
direttamente le proprie volontà. Ci vuole una buona legge che regoli i numerosi
dettagli pratici
richiesti dall'esercizio di questo diritto. Rifiutando il testamento biologico,
la Cei viene a rimettere
in discussione lo stesso consenso informato e in generale il diritto del
cittadino di rifiutare le cure
(forma di abbandono terapeutico), per riaffermare il vitalismo ippocratico.
Se così fosse sarebbe disastroso, e riporterebbe l'Italia indietro di 30 anni.
Ma questa sembra essere
la strada imboccata dalla Cei, che sfrutta la grande confusione teorica presente
nel paese. Speriamo
che l'operazione non riesca, e che il buon senso dei cittadini prevalga. La
situazione, però, è difficile
perché la nuova coscienza civile trova scarsa rappresentanza sul piano politico.
Maurizio Mori Liberazione 2 ottobre 2008
*Presidente della Consulta di Bioetica, Università di Torino