Ma dov'e' finito Gesu' Cristo?

 Nell’attuale dibattito su valori, identità, laicità forse abbiamo perso il centro

 

La priorità per le nostre chiese non è tanto il farsi trascinare su generici dibattitti religiosi o politici ma riscoprire la nostra personale relazione con Dio in Gesù Cristo

Valori. Famiglia. Identità. Radici. Solidarietà. Difesa della vita. Questi concetti sono stati più volte ribaditi come verità sacrosante e indiscutibili dalle gerarchie della comunità ecclesiale cattolica romana. Dietro all’apparente universalità o genericità di queste bellissime parole, si cela un’interpretazione estremamente precisa e partigiana delle parole stesse («vita» sì, ma interpretata non relazionalmente, ma biologisticamente) che pretende di essere l’unica valida. Chi è contrario alla visione biologistica della vita e alla sua difesa dal concepimento fino alla fine naturale, è tacciato di essere contro la vita. Il gioco lo conosciamo da tempo, e cominciano a conoscerlo pure alcuni universitari che non si sono permessi di zittire il pontefice (come fu detto a Porta a porta e su altri organi di informazione), ma soltanto di contestarlo. Comunque, dopo che egli si era prestato a una serie infinita di interventi «a gamba tesa» su questioni scientifiche e sociali, in nome dei sacrosanti concetti che abbiamo indicato prima, e talvolta con aulici toni che trasmettevano la sensazione di una perfetta e da altri irraggiungibile sussistenza della verità con il potere.

La domanda semplice è una sola. E Gesù Cristo? Dov’è Gesù in questa sacralizzazione dei nobili valori umani? Nell’appropriarsi di verità così condivise e universali da scadere talvolta nella più abissale banalità (i «valori» qualcuno mi spiega per favore quali e quanti sono?) e nel propinare surrettiziamente in termini altrettanto universali una loro partigiana interpretazione, dov’è Gesù? Sono tutti concetti che stanno perfettamente in piedi anche senza Gesù, condivisi perfino dalle schiere degli atei devoti e da altri zuavi pontifici arruolati di fresco. Ora, questo interventismo nella società italiana nel nome di queste parole, ci mostra altre preoccupazioni, altri intenti, altri progetti che non l’annuncio di Gesù Cristo. I gerarchi pontifici parlano all’Italia, ma parlano di «valori», non parlano di Gesù.
E le dirette televisive in occasione delle feste comandate non bastano a coprire questa triste realtà. Valori e non Evangelo. Famiglia e non vocazione. Identità cristiana e non discepolato cristiano. Radici cristiane e non frutti dello Spirito. Solidarietà e non condivisione. Biologia e non teologia, vita biologica e non vita eterna. Di questo il popolo italiano è assordato. E in tutto questo manca Gesù, manca Gesù!

Tutto ciò interpella profondamente le nostre piccole e deboli chiese evangeliche. Non per favorire un anticlericalismo d’accatto o l’eterno lamento sulla situazione che «non ci ha capiti». Ma per capire qual è oggi la nostra vocazione, la nostra direzione, il nostro mestiere di chiesa evangelica.
Se fino a poco fa si poteva definire nel solus Christus il punto di rottura (e perciò di testimonianza), oggi questo si è ulteriormente semplificato nel Christus tout court. Il regno di Cristo non può essere predicato da chi lo interpreta come invasività etica dei propri valori sulla società e nemmeno da chi pone la solitaria autonomia dell’essere umano come punto di arrivo di un processo di autoliberazione. Ma a costoro, così come ai primi, il regno di Cristo vuole essere proclamato. Perciò, concretamente, in questa situazione la priorità delle chiese evangeliche non può essere la questione della laicità. La priorità può essere la predicazione e la riflessione teologica rivolta in forma amichevole e critica tanto ai laici quanto ai preti. Questa è la priorità, è ciò che costitutivamente, come chiesa di Gesù Cristo e sua amata sposa, siamo tenuti a fare, nonché ciò che urge dalla situazione attuale nel nostro paese.

La predicazione dell’Evangelo chiama il singolo al ravvedimento e al discepolato, ma non lo massifica, non lo definisce come uno fra le migliaia in piazza S. Pietro o uno dei milioni di precari. Lo chiama personalmente, e gli dona una «compagnia di fedeli», una chiesa di cui è membro e non suddito, in cui diventa parte di un edificio e non ossequioso a un’istituzione. Ma soprattutto, riceve una parola stabile e dinamica, antica e presente, reale, progettuale, che invita, forma, educa e rende capaci non a una religione di massa ma a una relazione personale con Dio. Riceve una parola che non può che venire dal di fuori dell’architettura spirituale dell’umanità, una parola detta da Dio ma allo stesso tempo profondamente umana, molto più umana di tante parole disumane dette da umani. Una parola di ira e di condanna, una parola di perdono e di grazia incondizionata, una parola che afferma la giustizia di Dio che viene a noi come misericordia, che ci chiede pentimento e gioia.

Siamo chiamati e forse costretti a una concentrazione sull’essenziale. Il nostro specifico di credenti evangelici, di chiese evangeliche in questo momento più che mai non può essere nemmeno parzialmente sostituito da altri. La storia insegna che il protestantesimo contempla una ricca collezione di occasioni perdute e di ritardi all’appuntamento con la Storia. Ma questa volta non si tratta di sottoporre le chiese e ciascuno di noi a cambiamenti forzati ed epocali secondo la moda del momento. Si tratta, più semplicemente e più difficilmente, di riscoprire l’essenza del nostro discepolato e del nostro servizio. Essere determinati solamente da ciò che Dio ci dice. Confessare e proclamare con la modestia e con la fragilità dei nostri piccoli numeri l’Evangelo di Dio che è potenza e sapienza, senza volerlo sostituire con un altro vangelo di ecclesiastici potenti e sapienti. Cercare la verità e non la visibilità, puntare sulla parola e non sulla presenza. Testimoniare alla persona e non al numero. Essere all’attacco del male, della malvagità, dell’ipocrisia, della polverizzazione delle vite umane, e non giocare in difesa (dei valori o della laicità). Proprio perché siamo piccoli, siamo chiamati e forse costretti a fidarci soltanto nella potenza di cambiamento dell’Evangelo di Gesù Cristo. E la sua proclamazione sia la nostra convinta priorità e la nostra sola forza.

Emanuele Fiume   da  Riforma  1 febbraio 2008