Lotta al moderno. Una linea già fallita
Prima l'esaltazione di Giovanni Maria Vianney, il curato d'Ars assurto a eroe del cattolicesimo
contro i furori razionalisti della rivoluzione francese - e preso oggi a modello ideale di sacerdote.
Poi la raffigurazione della Chiesa come di una comunità che ingaggia una lotta estrema per la
propria sopravvivenza nella società contemporanea. E, proseguendo in questa visione apocalittica,
l'analogia tra la «dittatura del relativismo» che caratterizzerebbe il nostro tempo e la «dittatura della
ragione» post-1789. Infine, l'attacco frontale alla modernità con la tesi che sarebbe tutta colpa del
principio di autodeterminazione - la libertà di scelta individuale - se su questa terra si è spalancato
l'abisso del nazismo, esito estremo del nichilismo filosofico e della morte di Dio. Non si può dire
che nell'ultima settimana Benedetto XVI abbia difettato di attivismo. L'ultima polemica si è
innestata sul suo ultimo discorso, pronunciato dal ritiro estivo di Castelgandolfo.
«I lager nazisti, come ogni campo di sterminio - ha detto il pontefice - possono essere considerati
simboli estremi del male, dell'inferno che si apre sulla terra quando l'uomo dimentica Dio e a lui si
sostituisce, usurpandogli il diritto di decidere cosa è bene e cosa è male, di dare la vita e la morte».
Non è difficile scorgere nel pensiero del pontefice un'unica linea di attacco. Il bersaglio è la
modernità. L'individuo che conquista spazi di autodeterminazione via via maggiori, la libertà di
scegliere in autonomia criteri e valori. Da qui l'ossessione di Benedetto XVI non tanto nei confronti
della razionalità come tale - il nucleo della sua teologia rimane fortemente "logocentrica" - quanto
verso la ragione non guidata da Dio (e da chi ne è interprete assoluto in terra), quella ragione che si
svincola dal principio di autorità. C'è da chiedersi, però, se in questa contrapposizione frontale alla
modernità vi sia, oltre la manifestazione di una volontà di potenza, anche un uso politico del
discorso volto a mobilitare una comunità in crisi quale è la Chiesa cattolica, in vista di una sorta di
lotta finale per la sopravvivenza. Benedetto XVI è un papa della potenza e dell'affermazione,
oppure l'interprete di un pessimismo cupo, di una crisi epocale cui il cattolicesimo è chiamato a una
lotta senza precedenti? Su queste domande abbiamo chiesto l'opinione di Daniele Menozzi, storico
contemporaneo alla Normale di Pisa.
Durante la celebrazione del curato d'Ars, il papa ha identificato l'Ottocento nella dittatura del
razionalismo. Ma come, non è stato il secolo della Restaurazione e della riscossa del
cattolicesimo? Con questa condanna sommaria il papa non rischia di perdersi proprio quei
tratti della modernità più congeniali al suo magistero?
Nell'800 c'è una forte ripresa di conversioni al cattolicesimo proprio nel segno di una reazione
contro il razionalismo illuminista. E' un secolo egemonizzato da un romanticismo che nel religioso
vede il fondamento della convivenza sociale. Confondere l'età romantica dell'800 con la dittatura
del razionalismo significa sovrapporre due epoche differenti. Non si capisce se c'è semplicemente la
volontà di distorcere la storia o di banalizzare. Tra l'altro questa semplificazione non coglie la
complessità del movimento illuministico, in cui c'è stata anche una componente cattolica.
Ma la tesi di uno scontro frontale tra cattolicesimo e modernità è solo frutto di una volontà di
potenza oppure è anche la manifestazione di una crisi epocale della Chiesa? Dire che la società
di oggi è come quella del 1789 non è il segno della difficoltà della comunità cattolica a vivere in
questo tempo?
Davvero qui c'è il dubbio se queste semplificazioni storiche di Benedetto XVI siano il frutto di una
mancanza di conoscenza della storia - che pure è sempre presente nei suoi documenti - oppure siano
invece il risultato della scelta di voler forzare la tesi dello scontro epocale. La mia impressione è che
questa visione apocalittica sia funzionale alla costruzione di una retorica della lotta tra bene e male
della cui approssimatezza sia il papa che i suoi collaboratori sarebbero consapevoli. Il discorso è
talmente fragile dal punto di vista storico che c'è da chiedersi se il papa non voglia semplicemente
forzare i termini per costruire una retorica funzionale alla costruzione di una linea ritenuta
"vincente" da far introiettare al clero. L'idea di uno scontro tra Chiesa e mondo moderno sarebbe la
spinta necessaria perché il clero si volga alla riconquista della società che in questo momento è
ritenuto lo scopo principale della Chiesa. Se si convince il clero che si trova su un crinale, è più
facile animarlo in vista della battaglia.
Però viene da chiedersi se l'obiettivo sia realmente la conquista di spazi esterni nella società o
se il discorso non sia rivolto soprattutto all'interno della Chiesa stessa, di una comunità -
ricordiamolo - in crisi di sacerdozi...
E' funzionale a entrambi gli obiettivi. C'è il bisogno di compattare al suo interno il clero,
convincendolo che ci troviamo in un momento di scontro epocale tra il bene e il male. Ma, allo
stesso tempo, questo convincimento induce il clero a considerare il mondo come uno spazio da
conquistare. I due aspetti vanno insieme. Un precedente lo troviamo nell'intransigentismo cattolico
ottocentesco. Anche allora la Chiesa era animata dalla visione apocalittica di uno scontro tra bene e
male, così che fosse compattata sotto la guida dei suoi pastori e della sua somma guida nella
battaglia contro la modernità e nella riconquista della società. Da un lato il ricompattamento dei
fedeli sotto le gerarchie, dall'altro la spinta della comunità alla riconquista. Ma oggi la domanda è:
la costruzione di una retorica dello scontro frontale non è una linea storicamente già sconfitta? Non
siamo in presenza di un fallimento? La scarsa dimestichezza con la storia fa dimenticare che per un
secolo e mezzo la Chiesa si è mossa con questa linea e l'effetto è stato quello di un
ridimensionamento. C'è da chiedersi se la conoscenza approssimativa della storia da parte di questo
pontificato non lo porti ad adottare una linea che in passato è già stata perdente e che ha trascinato
la Chiesa a essere sempre meno numerosa e sempre meno evangelica. Tanto è vero che dal Concilio
Vaticano II fino a Paolo VI si è tentato di porre rimedio a quella linea fallimentare che aveva spinto
la Chiesa ad arroccarsi su se stessa, come una qualsiasi setta cristiana, non più chiesa cattolica
universale. Era già evidente negli ultimi anni del pontificato di Pio XII: l'idea di uno scontro
frontale con il mondo aveva reso la Chiesa incapace di parlare all'uomo contemporaneo.
Nel discorso di domenica Benedetto XVI ha stabilito un legame tra la modernità, il principio
della libertà di scelta, da un lato, e il nazismo, dall'altro. Ma il nazismo non fu proprio una
reazione al moderno?
Anche questa analogia dimostra la scarsa dimestichezza con la storia del pontefice e dei suoi
collaboratori. E' vero che il nazismo è stato una forma della modernità, ma proprio quella forma
della modernità nata in reazione al principio moderno dell'autodeterminazione dell'individuo. Il
nazismo esprime quella corrente della modernità che ritiene incapace l'uomo di costruire le proprie
forme di organizzazione della vita collettiva e che non considera affatto la democrazia, cioè la
progressiva conquista di spazi di autonomia degli individui, la forma migliore di convivenza civile.
I fascismi hanno avuto un'altra idea della modernità in reazione alle visioni "ottimistiche" che
ritenevano gli uomini capaci di dar vita a società ordinate, felici e pacifiche. Il nazismo ha
contrapposto l'idea che gli spazi di libertà andassero ristretti e che gli uomini dovessero essere
guidati dall'autorità. Qui c'è un nodo dell'interpretazione del '900 che non riguarda soltanto
Benedetto XVI ma anche gli ultimi anni di Giovanni Paolo II. Entrambi hanno parlato del XX
secolo e dei totalitarismi come se la stessa Chiesa non fosse stata una dei fattori ad aver portato a
quelle reazioni contro la modernità che hanno dato vita anche al nazismo. E' un tirarsi fuori dalla
storia, un far finta di nulla, un porre la Chiesa al di sopra della storia. Un dato preoccupante che
azzera una delle acquisizioni più importanti del cattolicesimo moderno: la consapevolezza che la
Chiesa vive nella storia, nel bene e nel male. Qui invece si pensa a una Chiesa che giudica la storia
senza sentirsene parte. Che non vive nella società e che non si considera più una presenza
fondamentale per la costruzione della democrazia e della libertà. Qui prevale un pessimismo
antropologico che ricorre anche nella Caritas in veritate dove il papa ricorda che la natura dell'uomo
è sempre limitata e inficiata dal peccato originale. Il pessimismo dell'intransigentismo ottocentesco
di Pio IX e Pio X riaffiora anche nel pontificato di Benedetto XVI: si guarda con diffidenza
all'uomo ritenuto, se lasciato a se stesso senza la guida della Chiesa, destinato al baratro e al
Liberazione 11 agosto 2009