Lo stato di salute della democrazia e l'incapacità di provare vergogna
Un sintomo del grado di sviluppo della democrazia e in generale della qualità della vita pubblica si
può desumere dallo stato di salute delle parole, da come sono utilizzate, da quello che riescono a
significare. Dal senso che riescono a generare. Oggi, nel nostro paese, lo stato di salute delle parole
è preoccupante. Stiamo assistendo a un processo patologico di conversione del linguaggio a
un'ideologia dominante attraverso l´occupazione della lingua.
E l'espropriazione di alcune parole chiave del lessico civile. È un fenomeno riscontrabile nei media
e soprattutto nella vita politica, sempre più segnata da tensioni linguistiche orwelliane.
L'impossessamento, la manipolazione di parole come verità e libertà (e dei relativi concetti)
costituisce il caso più visibile, e probabilmente più grave, di questa tendenza.
Gli usi abusivi, o anche solo superficiali e sciatti, svuotano di significato le nostre parole e le
rendono inidonee alla loro funzione: dare senso al reale attraverso la ricostruzione del passato,
l'interpretazione del presente e soprattutto l'immaginazione del futuro.
Se le nostre parole non funzionano - per cattivo uso o per sabotaggi più o meno deliberati - è
compito di una autentica cultura civile ripararle, come si riparano meccanismi complessi e
ingegnosi: smontandole, capendo quello che non va e poi rimontandole con cura. Pronte per essere
usate di nuovo. In modo nuovo, come congegni delicati, precisi e potenti. Capaci di cambiare il
mondo.
Proviamo allora a esercitarci in questo compito di manutenzione con una parola importante e più di
altre soggetta allo svuotamento (e alla distorsione) di significato di cui dicevamo. Proviamo a
restituire senso alla parola vergogna.
Nell'accezione che qui ci interessa la vergogna corrisponde al sentimento di colpa o di
mortificazione che si prova per un atto o un comportamento sentiti come disonesti, sconvenienti,
indecenti, riprovevoli.
È una parola da ultimo molto utilizzata al negativo: per escludere, sempre e comunque, di avere
alcuna ragione di vergogna o per intimare agli avversari - di regola con linguaggio e toni violenti -
di vergognarsi. La forma verbale "vergognatevi" è oggi spesso utilizzata nei confronti di giornalisti
che fanno il loro lavoro raccogliendo notizie, formulando domande e informando il pubblico.
Sembra dunque che vergognoso sia vergognarsi. La vergogna e la capacità di provarla appaiono
qualcosa da allontanare da sé, una sorta di ripugnante patologia dalla quale tenersi il più possibile
lontani.
Sulla questione Blaise Pascal la pensava diversamente, attribuendo alla capacità di provare
vergogna una funzione importante nell'equilibrio umano. Nei Pensieri leggiamo infatti che «non c'è
vergogna se non nel non averne».
In tale prospettiva è interessante soffermarsi sull'elencazione, che possiamo trovare in qualsiasi
dizionario, dei contrari della parola. Troviamo parole come cinismo, impudenza, protervia,
sfacciataggine, sfrontatezza, sguaiataggine, spudoratezza, svergognatezza.
Volendo trarre una prima conclusione, si potrebbe dunque dire che il non provare mai vergogna,
cioè il non esserne capaci, è patologia caratteriale tipica di soggetti cinici, protervi, sfacciati,
spudorati. Al contrario, la capacità di provare vergogna costituisce un fondamentale meccanismo di
sicurezza morale, allo stesso modo in cui il dolore fisiologico è un meccanismo che mira a garantire
la salute fisica. Il dolore fisiologico è un sintomo che serve a segnalare l'esistenza di una patologia
in modo che sia possibile contrastarla con le opportune terapie. La ritardata o mancata percezione
del dolore fisiologico è molto pericolosa e implica l'elevato rischio di accorgersi troppo tardi di
gravi malattie del corpo.
Così come il dolore, la vergogna è un sintomo, e chi non è capace di provarla - siano singoli o
collettività - rischia di scoprire troppo tardi di avere contratto una grave malattia della
civilizzazione.
Qualsiasi professionista della salute mentale potrebbe dirci che le esperienze vergognose, quando
vengono accettate, accrescono la consapevolezza e la capacità di miglioramento, e in definitiva
costituiscono fattori di crescita. Quando invece esse vengono negate o rimosse, provocano lo
sviluppo di meccanismi difensivi che isolano progressivamente dall'esterno, inducono a respingere
ogni elemento dissonante rispetto alla propria patologica visione del mondo, e così attenuano il
principio di realtà fino ad abolirlo del tutto.
Come ha osservato una studiosa di questi temi - Francesca Rigotti - l'azione del vergognarsi è solo
intransitiva e non può mai essere applicata a un altro. Io posso umiliare qualcuno ma non posso
vergognare nessuno. Sono io che mi vergogno, in conseguenza di una mia azione che avverto come
riprovevole. Pertanto la capacità di provare vergogna ha fondamentalmente a che fare con il
principio di responsabilità e dunque con la questione cruciale della dignità.
Diversi autori si sono occupati della vergogna. La parola è presente in alcuni bellissimi passi di
Dante e ricorre circa trecentocinquanta volte in Shakespeare. Ma è davvero interessante registrare
cosa dice della vergogna Aristotele nell'Etica Nicomachea. «La vergogna non si confà a ogni età,
ma alla giovinezza. Noi infatti pensiamo che i giovani devono essere pudichi per il fatto che,
vivendo sotto l'influsso della passione, sbagliano, e lodiamo quelli tra i giovani che sono pudichi,
ma nessuno loderebbe un vecchio perché è incline al pudore, giacché pensiamo che egli non deve
Gianrico Carofiglio