LO STATO DELLA PAURA
INTERVISTA CON LO STUDIOSO JONATHAN SIMON
La politica della sicurezza è una miscela di razzismo e esaltazione dello stile di vita della middle-class che punta a colpire gruppi della popolazione ritenuti «nemici della società»
La produzione teorica di Jonathan Simon
ruota attorno a quella secolare «guerra al crimine» che i vari governi
statunitense stanno combattendo. Docente all'Università della California, ne ha
ricostruito la storia in alcuni libri, purtroppo non tradotti in Italia, eccetto
questo Governo della paura (Raffaello Cortina, pp. 403, euro 29), nel quale
Simon concentra la sua attenzione sulle politiche della sicurezza statunitensi
in quanto politiche di controllo sociale contro gruppi specifici della
popolazione, dagli afro-americani ai latinos, dai poveri a uomini e donni di
origine araba. E di come la privatizzazione del sistema penitenziario assieme
alle politiche di «tolleranza zero» costituiscano appunto aspetti della
trasformazione del «penale» in un dispositivo di uno stato di sicurezza
nazionale. Così, mentre la tolleranza zero ha solo relegato ai margini delle
metropoli gli «scarti umani» prodotti dal neoliberismo, le campagne mediatiche
sulla diffusione delle droghe pesanti, della pornografia, della piccola
criminalità alimentano una vera e propria settore economico, che combina
tecnologie della sorveglianza, vigilantes, sviluppo di quartieri blindati (le
cosiddette gated communities ) e costruzione di penitenziari «privati».
Nell'intervista che segue Jonathan Simon ha mostrato interesse anche su ciò che
sta accadendo in Europa sulle politica della sicurezza e la militarizzazione
della repressione contro i migranti. Per Simon, in Europa come negli Stati
Uniti, la retorica sulla assenza di sicurezza non ha nessun riscontro empirico.
Negli Stati Uniti le politiche sulla sicurezza e contro la criminalità sono spesso motivate dalla convinzione che il criminale ha sempre un volto colorato: gli afro-americani, i latinos, gli asiatici. Si potrebbe dire che tutte le politiche contro la criminalità sono anche anche politiche di controllo sociale contro le minoranze etniche. Una sorta di riedizione razziale delle «classi pericolose» ottocentesche. Lei che ne pensa?
Sì, negli Stati Uniti le politiche contro la criminalità sono sempre state parte integrante delle politiche di controllo sociale delle minoranze. Questo emerge con più forza da quando esistono le cosiddette «prigioni in affitto», cioè quella privatizzazione del sistema penitenziario che ha caratterizzato spesso gli stati del sud, dove la popolazione carceraria è in stragrande maggioranza di origine afro-americana. Lo stesso si può dire di molte norme sulla sicurezza interna, laddove hanno ripristinato forme di segregazione razziale, in maniera esplicita sempre nel Sud, informalmente negli stati del Nord. Ciò che nei miei studi ho però voluto sottolineare è la continuità della politica statunitense nella «guerra al crimine» che ha sempre combinato repressione e retorica sui diritti civili dei detenuti. Una combinazione che non è venuta meno nemmeno durante la cosiddetta la «rivoluzione dei diritti civili». Negli anni Quaranta del Novecento, la componente «liberal» del Congresso, chiedeva repressione e al tempo stesso sosteneva anche che il «crimine dei negri» era il sintomo di un diffuso malessere sociale che richiedeva un massiccio intervento federale contro la povertà. Eppure furono emanate leggi molto repressive che colpirono duramente gli afro-americani. Negli anni Ottanta, il partito democratico aveva la maggioranza nel congresso. Eppure, con l'appoggio di molti leader della comunità afro-americana, ha proposto e fatto approvare leggi che prevedevano pene durissime sulla produzione e vendita di droga. L'obiettivo era contrastare la diffusione del crack e della cocaina, ma si tradussero in un aumento indiscriminato delle pene inflitte agli afro-americani. Sono questi gli anni in cui la retorica dei diritti delle vittime del crimine cerca e trova legittimazione negli anni Sessanta, quando le associazioni per le libertà civili sostenevano che le vittime di una qualche ingiustizia erano titolari di particolari diritti e che lo stato doveva intervenire per tutelarli. Non sostengo che il movimento sociale degli anni Sessanta sia responsabile di questa combinazione infernale di discriminazione razziale e politica dei diritti civili. Ciò che ho constatato nelle mie ricerche è che molti americani hanno appoggiato repressive politiche contro la criminalità utilizzando, cambiandogli di senso, l'ordine del discorso sui diritti inalienabili delle vittime di un'ingiustizia. E che erano esponenti politici e della società civile che facevano riferimento si al partito democratico che a quello repubblicano. L'obiettivo di imporre una supremazia bianca nel paese è largamente screditato, sebbene quella fosse l'aspirazione di molti elettori di entrambi i partiti almeno fino alla fine degli anni Sessanta. Tuttavia, l'obiettivo di garantire la sicurezza delle comunità - obiettivo che ha una lunga e contraddittoria storia negli Stati Uniti - è diventato egemone come obiettivo politico di entrambi i partiti, nutrendosi anche di contenuti razziali, visto che i nemici venivano individuati in questa o quella minoranza a seconda di chi parlava.
Alcuni studiosi sostengono che il governo della paura è in realtà una politica
contro i poveri. Cosa ne pensa di questo punto di vista la politica?
Una volta con Michel Foucault discutemmo a lungo della tendenza in atto tra gli studiosi di porre l'attenzione sulla repressione esercitata dal potere, dimenticando però il modo di produzione del del potere. In quell'occasione concordavamo sul fatto che se uno si concentra sulle politiche repressive è ovvio che giunge alla conclusione che la guerra al crimine è in realtà una guerra ai poveri. Ma questo, allora come oggi, è solo un aspetto di quelle che lei chiama governo della paura. Se infatti concentriamo l'attenzione anche sui dispositivi del potere come formalizzazione di determinati stili di vita, possiamo affermare senza essere smentiti che le politiche sulla sicurezza hanno al centro la difesa dello stile di vita della middle-class. D'altronde, è il ceto medio che, in nome della sicurezza, alimenta la costruzione delle comunità recintate negli Stati Uniti. Ed è il ceto medio che domanda alle imprese high-tech la produzione di programmi informatici e microprocessori che filtrano l'accesso a Internet, inibendo la connessione ad alcuni siti considerati «rischiosi». Ed è sempre il ceto medio che manda i propri figli a scuole dove la sicurezza è il marchio d'origine della vita scolastica.
La politica della sicurezza contribuisce allo sviluppo delle tecnologie della
sorveglianza, dalle videocamere disseminate nelle metropoli al software per il
«controllo» della rete o per il morphing, cioè il riconoscimento facciale. Per
gli attivisti dei diritti civili o alcuni studiosi sono tecnologie che limitano
la democrazia e rappresentano un attacco alla privacy. Cosa ne pensa?
Non ci sono dubbi che il «panopticon» della modernità che lei descrive è pagato dalla middle-class in nome della sicurezza. È stato chiesto che ci fosse un «Grande fratello» e chiunque mette in discussione la sua autorità è guardato con sospetto. Il segreto del successo dell'iniziale successo della presidenza di George W. Bush è stato proprio l'insistenza sulla sicurezza e sulla necessità di uno stato forte che la salvaguardasse con ogni mezzo necessario. Le prigioni che dovrebbero tenere segregati i «nemici della società» sono però un luogo oscuro dove il potere non riesce a esercitare il controllo su chi ci vive.
Tanto negli Stati Uniti che in Europa la politica sulla sicurezza ha come
obiettivo anche i migranti e altri gruppi della popolazione come i giovani,
prendendo a pretesto il fenomeno delle bande giovanili. Negli Stati Uniti alcuni
giornalisti e studiosi parlano di una strisciante guerra culturale contro le
controculture perché considerate devianti. Perché, secondo lei, la polizia o il
potere politico considerano i giovani dei nemici della società?
Da una parte i comportamenti giovanili sono definiti devianti come atto preventivo e sono colpiti per evitare che si trasformino in comportamenti criminali. Anche questa è una vecchia storia. Molti criminologi, da Cesare Lombroso in poi, hanno sostenuto che i giovani sono potenzialmente disponibili a intraprendere attività criminali. Sono quindi i bersagli potenziali nella guerra alla droga, perché la consumano o la spacciano; inoltre sono dei potenziali criminali economici economiche, perché scaricano illegalmente musica, film e software dalla rete. La legislazione antimmigrazione è invece motivata dal fatto che i migranti sono anch'essi potenzialmente dei criminali, perché è la loro condizione sociale che li predispone al crimine. Inoltre, i migranti, in quanto stranieri, mettono in discussione la «sovranità» di un governo di esercitare il potere all'interno della propria nazione. In tutto il ventesimo secolo, i vari governi americani hanno guardato all'immigrazione come un problema di gestione del mercato del lavoro. C'era una domanda di forza-lavoro che veniva soddisfatta regolando l'accesso sorvegliato alla cittadinanza. Più recentemente, invece, i migranti sono diventati un problema di sicurezza nazionale. Non c'è dubbio che l'attuale regime di governo della paura abbia le sue radici negli anni Sessanta, quando appunto i migranti sono stati affrontati come un problema di criminalità, perché vivevano, in quanto clandestini, nell'illegalità. È stato un cambiamento di toni, di dettaglio se vediamo che le leggi che regolano l'immigrazione non hanno avuto grandi riscritture. Da allora, piano piano, l'equazione tra migrante e criminale è entrata nel senso comune. Tanto negli Stati Uniti che anche da voi in Italia c'è stata ed è tutt'ora vigente una politica repressiva contro i migranti. Ma è importante sottolineare che sono politiche che oltre a configurarsi come repressione della criminalità legittimano l'uso della discrezionalità da parte del governo e dell'amministrazione nel governare la popolazione. E la discrezionalità nega qualsiasi possibilità di controllo sull'operato del governo, perché la discrezionalità non prevede nessuna pubblicità sull'azione dei pubblici poteri. Il governo della paura deve essere quindi al riparo da sguardi indiscreti. Il contrario cioè dello stato di diritto.
Benedetto Vecchi Il manifesto 17/09/08