Lo ha detto Hume: fede e ragione non stanno insieme
di Paolo Flores D'Arcais

Due anni fa, nel maggio del 2006, il cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia, e Paolo Flores d´Arcais, filosofo e direttore di MicroMega, furono invitati dal direttore della Normale di Pisa, Salvatore Settis, a confrontarsi su un tema delicatissimo: «Ateismo della ragione o ragioni della fede?». I contenuti di quel dibattito, compresi gli interventi che poi seguirono dal pubblico, sono stati raccolti in un libro che esce domani, Dio? Ateismo della ragione e ragioni della fede (Marsilio, pagg. 92, euro 7,90). Il volume riproduce il dibattito serrato fra i due interlocutori, un dibattito nel quale a viso aperto e con molta nitidezza Flores espone i motivi per cui fede e ragione siano da considerarsi inconciliabili, Scola, dal canto suo, ribatte richiamando all´attenzione l´enciclica di Giovanni Paolo II intitolata, appunto, Fides et ratio.
Il cardinale Scola è dal 2002 Patriarca di Venezia, è laureato in filosofia e teologia e vanta una ricca bibliografia. Fra gli altri, vanno ricordati La persona umana. Manuale di Antropologia Teologica, Gesù destino dell´uomo, Uomo-donna. Il "caso serio" dell´amore, Chi è la Chiesa, Una nuova laicità. Temi per una società plurale, Il Valore dell´uomo. Tra i libri di Flores si possono ricordare Etica senza fede, Il sovrano e il dissidente, Hannah Arendt e Dio esiste?


Il non credente raramente espone in modo esplicito le ragioni dell´ateismo. Le ragioni, nel senso forte del termine. La convinzione, meditata e criticamente radicata, che per fare filosofia, oltre che per fare scienza, l´ateismo sia una sorta di pre-condizione ineludibile.
L´ateismo metodologico, almeno. Ma talvolta, forse, qualcosa di più. Questa convinzione in genere viene sottaciuta. E tale ipocrisia nasce dal timore che proclamare apertamente l´incompatibilità di fede e ragione (di cui l´ateo è però fermamente convinto), del carattere cioè inguaribilmente irrazionale della fede – non solo di quella cattolica, ma oggi di questa soprattutto ci occupiamo –, possa suonare offensivo nei confronti dell´interlocutore. (...)
Sia chiaro, io non lamento questa ipocrisia come debolezza del non credente nei suoi sforzi di convincere l´interlocutore. L´ateo, infatti, non ha alcuna pulsione a convertire il credente, a fargli perdere la fede. E non ha tale pulsione proprio a cagione del suo ateismo. Ateismo, infatti, non significa nulla più della convinzione che tutto si gioca qui, nell´orizzonte finito della nostra esistenza. Ma se tutto si gioca qui, nel tempo incerto ma irrimediabilmente finito della nostra esistenza, e conta solo, dunque, quanto qui verrà realizzato, cioè i valori che si esprimeranno nel nostro agire, per l´ateo è assolutamente secondario che le persone che insieme a lui per questi stessi valori si batteranno lo facciano a partire da ragionamenti di stampo illuministico o perché hanno "fede" nel Vangelo, e dunque hanno preso sul serio il messaggio dalla parte degli ultimi come un dovere di impegno per la giustizia e per l´uguaglianza. (...)
Io credo che David Hume, nei sui Dialoghi sulla religione naturale, abbia smantellato in modo conclusivo le pretese di ogni ragionevolezza nella fede in Dio. In modo definitivo, almeno nel senso che alle sue obiezioni non sono mai state date risposte minimamente convincenti. Hume ha demolito tutte le pretese di dimostrazione di Dio sia delle religioni positive che di un generico deismo o teismo, di una religione "naturale" spesso predicata durante l´Illuminismo – la maggioranza degli illuministi erano in questo senso credenti. Hume, insomma, ha mostrato l´ateismo della ragione (...).
Ma ormai, nel dialogo fra credenti e non credenti, privo ormai di controversia proprio per quella "ipocrisia" che ricordavo all´inizio, da parte cattolica si ignorano le obiezioni che da Hume in poi sono state rivolte alle pretese di ragionevolezza della fede, visto che da parte non credente si fa la stessa cosa.
Io credo, invece, che si debba discutere proprio questa tesi, assolutamente esplicita: Ragione e Fede sono mutualmente incompatibili. Aut fides aut ratio. (...) Quando parliamo di ragione, tutti in genere concordiamo sulla validità degli "accertamenti" scientifici e sull´uso delle regole logiche nel corso di un´argomentazione. Dopo di che, ciascuno di noi attribuirà alla parola "ragione" anche altri significati, ma la validità della scienza+logica credo che costituisca un denominatore comune.
E allora, credo che oggi la filosofia, rovesciando Socrate, ma per restare fedele all´insegnamento socratico, non debba iniziare riconoscendo che "sappiamo di non sapere", ma debba partire piuttosto dal riconoscimento opposto: "sappiamo tutto". Oggi, dire "sappiamo di non sapere " diventa un alibi per non affrontare la realtà. "Sappiamo tutto", perché sappiamo "il nulla e il perché del nostro essere al mondo". In altre parole, sulla base di ricostruzioni scientifiche straordinariamente corroborate, abbiamo ormai avuto risposta alle grandi domande metafisiche del passato: chi siamo, da dove veniamo (e in un certo senso perfino: che cosa possiamo sperare).
Sappiamo come è nato l´universo, come è evoluto, gli infiniti momenti in cui avrebbe potuto evolvere diversamente, e cioè il peso radicale che ha la contingenza, il caso, nelle vicende che hanno segnato l´evoluzione dell´universo. È per caso che a un certo punto è insorta la vita organica, ma avrebbe potuto non nascere mai. Il caso (...) come elemento fondamentale e continuo dell´evoluzione che ha infine messo capo all´uomo.
 



Eppure la fede ha le sue ragioni ben fondate
di Angelo Scola, cardinale di Venezia

«Vivere senza Dio è soltanto una sofferenza». Da questa penetrante constatazione Dostoevskij trae la conclusione che gli atei sono «degli idolatri, non dei senza dio». Questa seconda affermazione, che so bene essere paradossale e provocatoria, è però utile per comprendere che quella dell´ateo non è riducibile a una pura tesi teoretica. Non basta affermare "Dio non esiste" per definirsi atei. Questa affermazione nominale è insufficiente perché non determina né la natura del dio che nega, né soprattutto il modo con cui viene operata tale negazione. Anche chi afferma di negare l´esistenza di Dio non riesce a inferire che Dio non esiste. Si deve dunque riconoscere che l´ateismo non è la semplice antitesi del teismo. L´ateismo non si oppone anzitutto alla tesi razionale riguardo all´esistenza di Dio. «Inversamente si può avere un´idea di Dio e concludere alla sua esistenza ed essere chiamati atei» ed è successo a Socrate, ai primi cristiani e a Spinoza. Se qualificassimo quindi la ragione come in se stessa atea, compiremmo un´operazione teoreticamente non rigorosa. (...)
Né ragione in sé atea, né credo quia absurdum. Ma cos´è allora questa fede? Come può restare fede senza cadere nell´assurdo? Può veramente pretendere di offrire ragioni all´umano «mestiere di vivere » (Pavese)?
Con tenacia la tradizione cattolica ha difeso il proprio concetto di fede di fronte a ogni pretesa fideistica basata sull´adagio credo quia absurdum est. Anche oggi possiamo trovare un prezioso criterio per confermare questa radicata attitudine nel nucleo dell´enciclica Fides et ratio, quando Giovanni Paolo II rivolge l´invito a «passare dal fenomeno al fondamento » (FR 83). Infatti, al di là dei contemporanei dibattiti di scuola tra metafisici, post-mmetafisici, analitici, fenomenologi ed ermeneutici, l´affermazione del papa intende sollevare la decisiva questione: «È possibile sradicare in modo assoluto [come fa il professor Flores] la considerazione della finitezza dalla questione della sua origine/destinazione?». O, detto altrimenti: «È possibile riconoscere un fondamento agli enti finiti?».
Il problema delle ragioni della fede o della fede in quanto rationabile obsequium pone, infatti, in modo inesorabile, l´interrogativo seguente: «Si dà fondamento?». E, nel caso di una risposta affermativa, «di che si tratta?».
Per affrontare queste domande, in modo che sarà necessariamente troppo rapido, non appaia temerario partire da un dato incontestabile nella sua tenacia: sempre qualcosa si dà a qualcuno.
L´affermazione va intesa nella sua immediatezza, precisando tuttavia che il "qualcosa" – senza ridursi all´ontico (né oggetto, né ente) – è, in un certo senso, tutto assorbito dal "si dà",così come il "qualcuno" non prende la forma dell´io trascendentale (in tutte le sue varianti) con la sua pretesa di costituire il "qualcosa" che si dà.
Comunque questo dato sia stato denominato lungo la storia del pensiero occidentale, negarlo vorrebbe dire ritrovarsi come il celebre "tronco" di aristotelica memoria. In ogni suo atto, l´io empirico – nella sua stessa "carne", che lo radica nel mondo mentre lo spalanca, attraverso il linguaggio, all´altro – è coinvolto in questo dato. E chiunque si impegni nell´impresa – a un tempo teoretica e pratica – della sua rigorosa "riduzione", scopre che esso, alla fine, sempre si ripropone: come la fenice continuamente risorge dalle sue stesse ceneri!
Per considerarlo cominciamo con l´assegnare – almeno per comodità – alla necessaria opera di rigore anche tutte le più o meno celebri Destruktionen del pensiero occidentale che si sono succedute fino ai nostri giorni, aggiungendovi le diverse varianti del non luogo a procedere o della scelta del non poter o voler entrare in materia proprie del contemporaneo pensiero che si definisce o non ricusa di definirsi debole. In tal modo forse si riduce notevolmente l´ampiezza di questo incoercibile dato, ma non fino al punto da intaccarne la forza elementare.

Repubblica 18.3.07