Il linguaggio della
cattiveria
Il Ministro dell’Interno ha dichiarato qualche giorno fa che «per contrastare
l’immigrazione
clandestina non bisogna essere buonisti, ma cattivi e determinati
nell’applicazione della legge».
Non dovrebbe essere necessario spiegare al Ministro che la legge non si
applica né con cattiveria né
con bontà: si applica con equità e giustizia. Sono le azioni delle
persone che possono essere buone o
cattive, e che quando sono cattive, come quella che si è consumata alla Stazione
di Nettuno, non ci
può essere ambiguità nel giudizio e nell’applicazione della legge. La condanna
morale deve essere
univoca e determinata e la legge applicata con giustizia. Ma l’attenzione al
linguaggio è ciò che
dovrebbe premere di più. Poiché è un fatto che se le parole di un ministro
suggeriscono
un’inferenza fra il successo della lotta all’immigrazione clandestina e la
«cattiveria» nel modo di
contrastarla, chi le ascolta potrebbe facilmente trovare in esse quello che
cerca: la giustificazione
del proprio sentimento discriminatorio e violento contro i clandestini, contro i
deboli, contro tutti
coloro che non rientrano nel loro modello «cattivo» di umanità. Chi
ricopre incarichi pubblici o ha
lo straordinario potere di essere ascoltato e letto da tutti dovrebbe sentire il
peso della responsabilità
delle parole che pronuncia.
La società italiana è più violenta e intollerante e nello stesso tempo
massicciamente più esposta a un
linguaggio pubblico che è sempre meno pubblico e sempre più usato con stile
privatissimo, e quindi
anche esagerato e rozzo. Ecco allora che la violenza contro i
clandestini diventa il segno di
un’emergenza che non si può contenere se non con la forza, perché pare ovvio che
se ci sono casi di
violenza è perché i clandestini non se ne stanno a casa loro e continuano ad
arrivare sulle nostre
coste. Ecco allora che la violenza contro le donne diventa un oggetto di ironia:
impossibile
contenerla, occorrerebbe mettere un militare a scortare ogni donna (bella
naturalmente); dove non è
chiaro perché ad essere scortati non debbano essere i maschi, visto che sono i
potenziali criminali il
problema, non le potenziali vittime.
In ogni caso la violenza viene dipinta come un fatto naturale. Nell’un
caso perché è naturale che i
padroni di casa (la nazione non è forse “nostra”?) vogliano tener fuori gli
ospiti non desiderati, con
tutti i mezzi che hanno a disposizione. Nell’altro, perché è nella natura del
maschio desiderare le
donne (soprattutto se belle). Non c’è nulla da fare. Se non ci fossero stranieri
alle porte e se le
donne fossero brutte, la sicurezza sarebbe garantita senza sforzo. Ma così non è
e quindi ci sono e ci
si devono aspettare reazioni, anche cattive. Ma non doveva essere la sicurezza
la preoccupazione
centrale di questo governo di destra? Certo che lo doveva e lo è ancora. Il
problema è che, poiché
non sembra che i progetti del governo, anche quelli più autoritari
(militarizzare la funzione
ordinaria di polizia; schedare i rom; e ora anche costringere i medici a fare
gli agenti informatori),
producano grandi risultati, allora si ricorre ad un’arma aggiuntiva, quella
populista. Si lanciano
messaggi infiammanti che implicitamente stimolano i cittadini a pensare che
debbano prendersi
cura della sicurezza nei modi loro propri, sostenendo il governo nella sua
azione cattiva e
determinata. Una domanda da donna mi viene a questo punto spontanea (lasciando
ai potenziali
predatori decidere se sono bella abbastanza da meritare il loro desiderio di
violenza, secondo il
suggerimento del nostro Presidente del Consiglio): non è chiaro cosa dovrebbero
fare le donne
(belle) per difendersi dai loro potenziali stupratori, visto che non possono
essere protette dai
guardiani della legge. Armarsi e attaccare prima di essere attaccate, come
Hobbes pensava che
succedesse nello stato di natura?
Nadia Urbinati l'Unità 17 febbraio 2009