Il linguaggio dei vincitori
SONO francamente ammirato dall´impassibilità con la quale tanti commentatori
analizzano i flussi elettorali, esaltano la radicale semplificazione del sistema
parlamentare, assumono la Lega come riferimento, si chiedono se siamo entrati
nella Terza Repubblica o se la Seconda Repubblica comincia solo ora. Ma tanti
dati di cronaca, e le sollecitazioni della memoria, mi fanno poi sorgere qualche
dubbio e mi spingono a chiedere se la vera novità di queste elezioni non
consista nell´emersione piena di un modello culturale, sulle cui caratteristiche
hanno in questi giorni scritto assai bene su questo giornale Nadia Urbinati e
Giuseppe D´Avanzo.
Non giriamo la testa dall´altra parte. Quel che è appena accaduto, e si sta
consolidando, riguarda davvero "l´autobiografia della nazione". Non riesco a
sottovalutare fatti che troppi si sforzano di considerare minori, che vengono
confinati nel folklore, assolti da Berlusconi come simpatiche e innocue
forzature del linguaggio da parte degli uomini della Lega. E invece dovremmo
sapere (quanto è stato scritto su questo argomento?) che proprio il linguaggio è
la prima e rivelatrice spia di mutamenti profondi che investono la società e la
politica. L´elenco è lungo, e non riguarda solo la storia recentissima.
Si cominciò da pulpiti altissimi con l´aggressività verbale eretta a
comunicazione politica quotidiana, considerata troppe volte come una simpatica
bizzarria e dilagata poi in ogni possibile contenitore televisivo, sdoganando
ogni becerume anche nei luoghi propriamente istituzionali. E il linguaggio non è
solo quello verbale. Si sono fatte le corna nei vertici internazionali e si è
mangiata mortadella in Senato, si continuano a disertare le manifestazioni del
25 aprile e si elegge il Bagaglino a rappresentante della cultura nazionale.
Commentando il colpo di mano del Presidente della Commissione europea che ha
tolto all´Italia le competenze in materia di libertà, sicurezza e giustizia, si
è detto che è meglio così, che è preferibile occuparsi di trasporti piuttosto
che di "omosessualità". Per fortuna non si è parlato di "culattoni", riprendendo
il simpatico linguaggio della Lega: ma, di nuovo, il linguaggio è rivelatore,
anche perché rende palese una cultura incapace di comprendere la dimensione dei
diritti civili. Sempre scorrendo le cronache, scopriamo che il futuro Presidente
della Camera dei deputati apostrofa, sempre simpaticamente, un immigrato come "paraculo"
mentre si investe, non si sa a quale titolo, della funzione di controllo dei
documenti. Di un futuro ministro leghista ci viene offerto un florilegio di
citazioni su stranieri e immigrati, sulle sanzioni da applicare, che non ha
nulla da invidiare ai suoi più noti ed estroversi colleghi di partito. Un bel
ponte tra passato e futuro, una indicazione eloquente degli spiriti che nutrono
la nuova maggioranza, all´interno della quale si fa sentire sempre più forte la
voce di chi invoca la pena di morte, raccogliendo un consenso che rischia di
vanificare il grande successo internazionale del nostro Paese come promotore
della moratoria contro la pena di morte approvata dall´Onu.
Di fronte a tutto questo dobbiamo davvero ripetere che le parole sono pietre.
Suscitano umori, li fanno sedimentare, li trasformano in consenso, ne fanno la
componente profonda di un modello culturale inevitabilmente destinato ad
influenzare le dinamiche politiche.
Parliamo chiaro. Una ventata razzista e forcaiola sta attraversando l´Italia, e
rischia di consolidarsi. Ammettiamo pure che grandi siano le responsabilità
della sinistra, nelle sue varie declinazioni, per non aver colto il bisogno di
rassicurazione di persone e ceti, spaventati dalla criminalità "predatoria" e
ancor più dall´insicurezza economica, vittime facili dei costruttori della
"fabbrica della paura". Ma questa ammissione può forse diventare una
assoluzione, un modo rassegnato di guardare alle cose senza riconoscerle per
quello che davvero sono? La reazione può essere quella di chi alza le mani, si
arrende culturalmente e politicamente e si consegna al modello messo a punto
dagli altri, con un esercizio che vuol essere realista e, invece, è suicida?
Doppiamente suicida, anzi. Perché non si compete efficacemente quando si parte
dalla premessa che la ragione di fondo sta dall´altra parte: l´imitazione
servile, in politica, non rende. E, soprattutto, perché si consoliderebbe
proprio il modello che, in nome della civiltà, dev´essere rifiutato e
combattuto. Le possibilità di ripresa delle forze di centrosinistra passa
proprio dalla piena consapevolezza della necessità di una immediata messa a
punto di una strategia diversa.
Aggiungo che vi è un elemento meno appariscente di quel modello che ha lavorato
nel profondo, che può apparire meno insidioso e che, quindi, può non suscitare
la reazione necessaria. Mi riferisco ad una idea di comunità chiusa, che coltiva
distanza e ostilità; che spinge a chiudersi nei ghetti; che fomenta il conflitto
tra i gruppi sociali contigui. Anche questa è una lunga storia, perché molte ed
esemplari sono le "guerre tra poveri". Che non sono scongiurate elevando muri e
neppure predicando una tolleranza che in questi anni si è trasformata in
accettazione dell´altro alla sola condizione che faccia ciò che ci serve e che i
nostri concittadini rifiutano, alle condizioni che imponiamo: e poi, esaurita
questa funzione e calata la sera, quelle persone si allontanino sempre di più,
isolandosi nelle loro comunità, lontani dagli occhi e, soprattutto, liberandoci
da ogni inquietudine umana e sociale. Dobbiamo affrancarci dalle suggestioni del
comunitarismo, che presero Tony Blair, solleticarono anche qualche politico
della nostra sinistra e, ora, rischiano di tornare alla ribalta per chi si fa
abbagliare dall´esempio leghista.
Di tutto questo non basta parlare. È questa diversa cultura, che ha tanto
giocato anche nell´esito elettorale, a dover essere analizzata. Altrimenti, le
considerazioni sui comportamenti elettorali rimarranno monche e le stesse
proiezioni nella dimensione istituzionali saranno distorte. Non è solo un
doveroso esercizio di pulizia intellettuale. Se si pensa che vi sono emergenze
che devono essere fronteggiate con forte spirito politico, e il degrado
culturale lo è al massimo grado, bisogna essere chiari e necessariamente
polemici. Guai a dare una interpretazione del "dialogo" tra maggioranza e
opposizione che induca a mettere tra parentesi le questioni più scottanti.
Bisogna rendersi conto che ammiccamenti e tatticismi qui non servono a nulla, e
dire alla maggioranza che in questa materia, davvero, non si può negoziare. Solo
così può nascere una alleanza non strumentale tra politica e cultura, che
investa anche schieramenti diversi; e, forse, qualche apertura per uscire da un
clima che si è fatto irrespirabile.
Un piccolo, finale esercizio di relativismo culturale. Le cronache ci hanno
parlato di un Tony Blair sorpreso senza biglietto sul treno tra l´aeroporto e
Londra. Anche i nostri giornali hanno biasimato il fatto, riprendendo le giuste
reazioni inglesi. Ma, da noi, doveva essere in primo luogo sottolineato come un
potente ex primo ministro di una grande nazione non si servisse di auto di
Stato. Questi sono i modelli culturali che ci piacciono.
Stefano Rodotà Repubblica 28.4.08