Libera Chiesa in debole Stato
Troppe le ingerenze vaticane nella politica italiana
Negli ultimi tempi la
laicità si è trasformata in un prezzemolo buono per ogni salsa. Ma se tutti sono
laici, allora questa parola non significa più nulla: tanto varrebbe
sbarazzarsene. È una tentazione irresistibile, davanti alle acrobazie verbali
che ci consegna l’esperienza. Nel dibattito pubblico ricorre l’appello verso una
«sana» laicità pronunziato da Benedetto XVI e dai suoi predecessori; ma ricorre
inoltre, e per esempio, il monito col quale un capo dello Stato (Scalfaro)
definisce «sacra» la laicità delle istituzioni, che è un po’ come dichiarare
ateo il Padreterno. Insomma abbiamo in circolo pontefici laici e presidenti
ieratici. D’altra parte, «laos» era in origine il popolo di Dio; evidentemente
stiamo riportando a nudo le radici.
In realtà queste radici hanno alimentato lo sviluppo degli Stati nazionali.
Perché lo Stato nasce laico, o altrimenti non sarebbe nato. Nasce quando il
potere politico divorzia da quello religioso, attraverso un processo storico che
ha origine nella Lotta delle Investiture (1057-1122), trova la sua prima
sistemazione teorica nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes, viene poi
codificato dalla Costituzione francese del 1791, quando la libertà di fede
sancisce la definitiva emancipazione dello Stato rispetto alla cura degli affari
religiosi. Come diceva Locke, la salvezza delle anime non ricade fra i compiti
dello Stato. Sicché la laicità si risolve in un’indicazione puramente negativa,
che vieta alla legge di farsi contaminare da valori religiosi. Evoca il «muro»
fra Stato e chiese di cui parlava Jefferson, e ripete in qualche modo il verso
di Montale: «codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non
vogliamo».
Questa idea si specchia nell’articolo 7 della Costituzione italiana, che
dichiara l’indipendenza dello Stato dalla Chiesa. Al contempo, esso riconosce la
sovranità della Chiesa cattolica, e perciò la riconosce come Stato. Uno Stato
enclave, ma pur sempre uno Stato, che intrattiene relazioni diplomatiche con 176
Paesi. Insomma il cattolicesimo è l’unica confessione religiosa il cui organo di
governo è posto al vertice d’uno Stato sovrano. Ma dal fatto che la Santa Sede
sia uno Stato derivano vincoli e divieti. A una garanzia in più (e quale
garanzia!) fa da contrappeso un limite in più. Quindi se un monaco buddista o un
rabbino ebreo possono ben intervenire sulle vicende legislative della Repubblica
italiana, non può farlo il Vaticano. Qui, difatti, non viene in campo la libertà
di religione. Non viene in campo una questione di diritto costituzionale, bensì
una questione di diritto internazionale. Quando non i parroci, ma il governo
stesso della Chiesa attraverso la Cei invita per esempio a disertare un
referendum, è come se a pronunziare quell’invito fosse il presidente francese
Sarkozy. E la reazione dovrebbe essere affidata ai nostri rappresentanti
diplomatici, se vogliamo prendere sul serio l’articolo 7.
D’altronde, che accadrebbe se il premier italiano si scagliasse contro i
principi che governano il diritto della Chiesa? Gli argomenti, diciamo così, non
mancherebbero. Il diritto canonico non conosce la separazione dei poteri, dato
che il Pontefice è al vertice del potere legislativo, esecutivo, giudiziario:
una concentrazione che a suo tempo Cavour aveva definito come «il più schifoso
despotismo». Non conosce il suffragio universale per la preposizione alle
cariche ecclesiastiche. Non conosce la certezza del diritto, sepolta da un
sistema di dispense e privilegi. Non conosce la libertà di culto, giacché
qualunque offesa alla religione cattolica riveste la natura di reato. Non
conosce la regola della maggiore età, dal momento che le leggi ecclesiastiche
obbligano tutti i battezzati che abbiano compiuto 7 anni. Non conosce il
principio d’eguaglianza fra i sessi, negando il sacerdozio femminile. Ma neppure
lo riconosce all’interno del sesso maschile, dato che laici e chierici hanno una
differente capacità giuridica, dato che i diritti politici restano in
appannaggio ai sacerdoti, e dato infine che questi ultimi sono una casta con
proprie norme, sanzioni, tribunali.
In breve, la Chiesa è retta da un ordinamento dove il potere politico coincide
con quello religioso, e dove vengono smentite le più elementari regole dello
Stato di diritto. Eppure da quel pulpito piovono scomuniche e indirizzi per
condizionare la vita pubblica italiana. Basterà rievocare un episodio: il 16
marzo scorso Benedetto XVI ha esortato all’obiezione di coscienza in difesa
della vita non solo farmacisti e medici, ma anche i giudici italiani. Sennonché
i giudici - afferma la Costituzione - «sono soggetti soltanto alla legge»;
l’unica obiezione di coscienza che viene loro consentita è impugnare la legge
per incostituzionalità. Se potessero rifiutarsi di rendere giustizia
appellandosi ai propri umori e amori personali, verrebbe scardinato non tanto lo
Stato di diritto, bensì lo Stato in sé e per sé, l’ordine civile.
Tuttavia le nostre istituzioni hanno risposto, ancora una volta, col silenzio.
Un silenzio complice, non soltanto perché la degenerazione d’un regime
democratico in regime clericale (diceva Salvemini) avviene gradualmente, e te ne
accorgi quando si è già consumata; non soltanto perché altrove i governi
reagiscono con una protesta diplomatica, come ha fatto Zapatero nel 2005, dopo
la scomunica ecclesiastica dei matrimoni gay; ma infine perché tale
atteggiamento implica una cessione di sovranità. Peraltro in molti casi gli
interventi della Santa Sede vengono sollecitati proprio da chi ci rappresenta: è
accaduto in agosto, quando Prodi ha chiesto l’aiuto della Chiesa per far pagare
le tasse ai cittadini, ottenendo una dichiarazione del segretario di Stato
vaticano. Appelli come questo rivelano tutta la debolezza della classe politica
italiana, ma il loro effetto è legittimare le istituzioni di uno Stato straniero
all’esercizio d’un anomalo ruolo di supplenza sulle nostre istituzioni. Che
perciò si spogliano della propria laicità, e insieme della propria sovranità.
MICHELE AINIS La Stampa 23/10/07